Cibo e religione, un rapporto che rappresenta una costante che attraversa il tempo e gli spazi, dall’antichità ai giorni nostri, nelle diverse culture religiose dotandosi anche di caratteristiche simboliche. In ogni mitologia religiosa, infatti, troviamo delle divinità che presiedono a specifici alimenti, o alle tecniche per procurarli e quasi ogni cultura religiosa si è preoccupata di proibire o permettere determinati cibi o consigliarne degli altri, creando una suddivisione tra ciò che è lecito e ciò ce non lo è. Questo lo si ritrova per esempio nelle Upanisad scritte in India a partire dal IX, VIII secolo a.C. ma anche nel Corano, o nella Torah della tradizione ebraica e nel Nuovo Testamento di quella cristiana. Di questo e molto altro ne abbiamo parlato con lo psicologo, psicoterapeuta e antropologo culturale Giovanni Frigo.

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Dottor Frigo, come nasce il rapporto tra cibo e religioni?

Lo psicologo, psicoterapeuta e antropologo Giovanni Frigo

«Per l’antropologo Claude Lèvi-Strauss il cibo “è buono da pensare” perché si presta ad essere trasformato, a livello psichico, in qualcosa d’altro che non una miscela di nutrienti. Prima del contenuto calorico il cibo è denso di un contenuto simbolico ed entrambi entrano nel metabolismo del corpo. Le calorie alimentano il metabolismo corporeo tanto quanto i simboli alimentano quello psichico. Quindi se è vero che “non di solo pane vivrà l’uomo”, è altrettanto vero che “anche di pane vivrà l’uomo” in quanto il cibarsi è atto necessario e indispensabile alla vita. L’atto del cibarsi, assieme a quello del respirare, costituiscono le due modalità attraverso le quali il mondo entra in noi e noi facciamo entrare il mondo in noi. Così attraverso il cibo l’uomo si mantiene in vita e sempre attraverso il cibo l’uomo si relaziona con il mondo, lo fa entrare dentro di sè; è un processo di relazione con la cultura di cui il cibo è espressione e con le persone con le quali il cibo è condiviso. È in questa relazione tra l’individuo e il mondo, che si inseriscono le religioni codificando una serie di norme e di divieti: delle vere e proprie prescrizioni per i fedeli. Le prescrizioni alimentari, originate da una lettura simbolica dell’alimento in questione, attraversano le varie culture.»

Può farci qualche esempio?

«Nella tradizione ebraica troviamo una serie di prescrizioni alimentari chiamate kasherut che indicano come devono essere i cibi kasher (adeguati) e quali sono quelli non kasher e quindi non adeguati al credente ebreo. Le prescrizioni alimentari sono ricavate dalla Torah (corrispondente ai primi cinque libri della Bibbia), e nascono per preservare la salute spirituale, prima ancora che quella fisica, del credente. Per esempio sono considerati “leciti” gli animali quadrupedi, ruminanti e con l’unghia bipartita; i pesci con squame e pinne. C’è poi una lista di volatili e insetti leciti o illeciti.»

Quali sono, invece, le prescrizioni che riguardano la preparazione dei cibi, come per esempio la macellazione degli animali? È vero che è proibito il consumo di animali morti naturalmente o sbranati da altri animali?

«Si, è vero! Per quanto riguarda la macellazione, deve avvenire seguendo il rituale della shechitàh il quale prescrive che l’animale non venga fatto inutilmente soffrire, deve essere sgozzato con un  coltello ben affilato affinché tutto il sangue defluisca. Un’altra prescrizione riguarda il non cucinare la carne con il latte affinché non venga contaminata la vita con la morte, perché recita la bibbia: “non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre”.»

Ci sono prescrizioni anche per gli alimenti vegetali?

«I vegetali non devono contenere insetti. Il latte e le uova devono derivare da animali considerati kosher per essere a loro volta kosher.»

Se non ricordo male, nella tradizione ebraica alcuni cibi vengono definiti “ambigui” a causa della loro difficile classificazione e per questo vengono definiti “cattivi”

«Si, l’elemento discriminante tra cibi tahor e cibi tame sembra essere proprio la contaminazione classificatoria: è tame tutto ciò che non è precisamente classificabile perché ambiguo (o perché appartiene al mondo infero e buio del basso che si contrappone a quello celeste e luminoso dell’alto), perché contiene elementi di appartenenza a classi classificatorie diverse e quindi essendo ambiguo è ritenuto contaminato e quindi capace di contaminare.»

Diverso è l’approccio della cultura cristiana che mi pare proponga più un invito alla moderazione e al non abusare delle “cose del mondo” più che vere e proprie prescrizioni. Ma esiste per il cristianesimo, un pensiero specifico che riguarda il cibo?

«La vita del credente cristiano è una preparazione a una vita eterna: “il mio regno non è di questo mondo” e quindi non ci sono precise indicazioni su cosa sia proibito o no. Possiamo ritrovare però nel dogma della transustanziazione – in cui viene dichiarato che durante la celebrazione eucaristica avviene la trasformazione del pane nella sostanza del corpo di Cristo e del vino nella sostanza del sangue di Cristo – una caratteristica fondamentale del cibo secondo il cristianesimo: quella di essere veicolo simbolico che trasporta dal “fuori” al “dentro” le proprietà di cui è carico. Per il cristiano credente, l’Eucarestia è realmente l’introduzione di una sostanza divina dentro di sé; questo aspetto potrebbe essere allargato, dal punto di vista antropologico, all’effetto placebo riscontrabile in quelle guarigioni che avvengono somministrando medicamenti “magici” o caricati di magia da parte del guaritore tradizionale.»

“O voi che credete, mangiate le buone cose di cui vi abbiamo provvisto e ringraziate Allah, se è Lui che adorate. In verità vi sono state vietate le bestie morte, il sangue, la carne di porco e quello su cui sia stato invocato altro nome che quello di Allah. E chi vi sarà costretto, senza desiderio o intenzione, non farà peccato. Allah è perdonatore, misericordioso.” Così recita il Corano che, insieme alla Sunna, vuole guidare il credente ad una vita conforme ai precetti di Allah. Anche qui ci sono cibi proibiti o concessi e indicazioni alla preparazione; ma ci sono delle differenze, per esempio, con le prescrizioni della tradizione ebraica?

«La Shari’ah, strada battuta (la raccolta di leggi sacre per l’Islam) prescrive cose e comportamenti che sono leciti “halàl” e indica quelli proibiti “haràm”, guidando il credente in tutti gli aspetti del vivere quotidiano. Per quanto riguarda bevande e alimenti, per l’Islam sono tutti leciti, a eccezione di quelli vietati esplicitamente nel sacro Corano e nella Sunna: animali uccisi senza rispettare le regole di macellazione islamiche, la carne di maiale e il consumo di alcolici e un elenco di volatili, insetti e altro. Le regole di macellazione islamiche, tadhkiya, prescrivono che il macellatore deve essere un credente musulmano, che l’animale deve essere adagiato sul fianco sinistro, con la testa rivolta alla Ka’ba (Mecca), mentre la mano sinistra tiene ferma la testa dell’animale la destra con una lama ben affilata lo deve sgozzare invocando la formula sacra: Bismillàhi. Allàhu akbar (nel nome di Dio, Dio è grande).»

 Ma come mai tutto questo ordine, tutta questa esigenza di permettere o proibire e classificare, tutto questo occuparsi dell’alimentazione da parte delle religioni?

«Il bisogno di ordinare, di dare un nome e quindi di classificare tutto ciò che l’uomo ha intorno, nasce dall’ angoscia primordiale del mondo sconosciuto che risulta quindi terrifico perché governato da forze insondabili e spesso ostili. Per poterla capire dovremmo immaginarci di essere catapultati all’improvviso in un mondo alieno, dove tutto ciò che ci circonda è sconosciuto e potenzialmente pericoloso. C’è un bisogno innato, fondamentale di dare ordine all’Universo per combattere l’angoscia di essere un minuscolo granello di polvere che si muove in una immensità senza limiti. Questo vale anche per il cibo che entra nelle pratiche e tradizioni religiose in quanto trasformato simbolicamente all’interno di codici classificatori propri della specifica cultura. Il cibo rappresenta e veicola contenuti mitici e le prescrizioni alimentari creano una divisione tra ciò che è bene e ciò che è male, contribuisce ad ordinare e classificare il mondo e serve a creare la griglia conoscitiva attraverso la quale osservare la realtà esterna.»

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