Anas Almustafa, 41 anni, è fuggito dalla sua casa ad Aleppo nel 2016, in piena guerra civile. Aleppo era al tempo uno dei principali teatri di scontro durante la guerra civile siriana e gran parte della città venne rasa al suolo. Anas si rifugiò nella città di Konya, nel centro-sud della Turchia, dove poteva contare sull’appoggio di alcuni parenti. Dopo essersi registrato presso l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR, ricevette i documenti per poter risiedere in Turchia. Apprese la lingua locale, si dotò di patente di guida turca e trovò un lavoro presso una società di Internet gestita da un amico turco.

In quel periodo Anas entrò anche a far parte di IMPR Humanitarian, una Organizzazione Non Governativa turca, che però poco dopo venne chiusa dal governo di Erdogan. Anas, allora, decise di fondare la sua organizzazione no-profit chiamata “A Friend indeed”, lavorando in collaborazione con ONG in Italia e Romania. Grazie alle donazioni provenienti da tutto il mondo in poco tempo Anas è riuscito nel tempo ad aiutare quasi 200 famiglie (con circa 400 bambini), affidate alle sue cure. Con la sua attività centinaia di persone, soprattutto vedove e minori, sono riuscite per lungo tempo a mangiare e ad avere un rifugio dove dormire la notte.

Anas Almustafa

Nel maggio 2020, all’improvviso, tutto è cambiato. La polizia turca un giorno si è presentata alla sua porta per chiedergli se avesse ricevuto la cittadinanza del loro Paese. Anas all’epoca stava ancora aspettando una risposta alla sua domanda e non potendo rispondere positivamente venne condotto nella più vicina stazione di polizia, dove venne privato di orologio e telefono, oltre che del portafoglio, contenente i suoi documenti di identità. Passò diversi giorni rinchiuso in una cella, in compagnia di alcuni altri profughi siriani. Erano tutti lì, ufficialmente, per rispondere alle domande sulla loro richiesta di cittadinanza.

Dopo l’arresto l’espulsione

La polizia turca, nei giorni successivi, minacciò Anas di espulsione, nonostante il siriano avesse spiegato che la sua città era controllata dal regime di Assad e che lui sarebbe stato ucciso se fosse tornato. Prima dell’inizio della guerra Anas aveva un lavoro governativo che però abbandonò, non appena iniziato il conflitto. Non voleva essere complice delle nefandezze del dittatore del suo Paese. A quel punto l’attivista chiese di poter chiamare l’UNHCR o il suo avvocato, ma non gli venne permesso. La polizia lo lasciò in carcere per altri sei giorni durante i quali gli venne detto che sarebbe stato mandato in un campo profughi in Siria o tenuto in prigione per molti mesi. E questo senza fargli mai sapere quale fosse il suo crimine.

Otto giorni dopo il suo arresto, Anas e gli altri siriani vennero caricati alle 5 del mattino su un’auto senza contrassegni e condotti oltre il confine con la Siria, in un centro di isolamento. Dopo circa una settimana, Anas fuggì per raggiungere un amico, nella città di Idlib nel nord-ovest della Siria, dove rimase per i successivi cinque mesi, vivendo di nascosto, nella paura di essere arrestato nuovamente. Alla fine, in preda alla disperazione e grazie all’aiuto di alcuni contrabbandieri, Anas tornò in Turchia. Dopo aver camminato per 30 ore attraverso le montagne e il deserto, senza acqua né cibo, raggiunse prima Antakia e poi di nuovo Konya. In quella che era diventata ormai la sua casa.

Kurtuluş Baştimar

Qualche tempo dopo, però, la polizia venne nuovamente a bussare alla sua porta. Riuscì a fuggire, ma da allora Anas vive nell’ombra, nell’impossibilità di girare liberamente e lavorare. Una situazione che ormai dura da tantissimi mesi. Ora Anas vive nell’attesa. Il suo avvocato, Kurtuluş Baştimar, nel frattempo ha chiesto un’audizione alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha però affermato di non poter assumere il caso perché Anas non ha esaurito il processo di appello in Turchia. Dal momento che non c’è stato alcun procedimento legale che abbia portato alla sua espulsione, non c’è nulla a cui appellarsi. Insomma, il protagonista di questa storia si ritrova in un cul-de-sac legale-internazionale. Una situazione kafkiana, che non promette nulla di buono per la sua soluzione, anche se l’avvocato Baştimar dimostra un velato ottimismo: «Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha accettato la mia richiesta e al governo turco è stato intimato di presentare le sue motivazioni – ci spiega l’avvocato -. In qualità di suo avvocato internazionale, dovrei ricevere a breve una soluzione internazionale da parte del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria. Vedremo.»

Una soluzione “veronese”

Nell’attesa degli sviluppi della vicenda oggi Anas continua a vivere nell’incertezza: ancora non si sente sicuro di tornare a vivere a casa sua e continua a fare affidamento sulla solidarietà degli amici, che lo ospitano in clandestinità sapendo che questa azione potrebbe portare anche alla loro stessa espulsione. Anas non è un criminale e non è pericoloso. È solo un operatore umanitario che aiuta le famiglie siriane. Il suo obiettivo è scappare dalla Turchia. E per questo ha instaurato un canale privilegiato con A.Cross onlus, un’organizzazione umanitaria con sede a Caprino Veronese (in provincia di Verona), che sta tentando di aiutarlo sensibilizzando il governo italiano affinché gli fornisca un “visto” che gli consenta di arrivare in Italia in totale sicurezza. L’onlus veronese è disposta anche ad aiutarlo a trovare un lavoro come mediatore culturale.

«Ci è stata segnalata la difficile situazione di questo profugo da parte dell’Associazione Crescere Insieme, che l’ha conosciuto e sostenuto», ci spiega la Presidente dell’associazione A.Cross Enrica Rosato. «Noi siamo un’associazione che si occupa di richiedenti asilo e gestiamo vari centri di accoglienza. Stiamo seguendo questo problema sul versante italiano, per aiutare le persone quando arrivano qui da noi. Fra queste c’è anche la possibilità di offrire un impiego ad Anas, qualora riesca a raggiungere il territorio italiano.»

Enrica Rosato

Al momento A.cross gestisce un’ottantina di richiedenti asilo e per farlo impiega anche personale straniero proprio per la stringente necessità di avere una fondamentale mediazione culturale e linguistica. «Sul caso di Almustafa al momento abbiamo ancora poche informazioni, purtroppo. Di certo abbiamo capito che far conoscere la sua storia e divulgarla il più possibile può rappresentare una modalità per aiutarlo – prosegue la presidente Rosato. – Casi come quello del profugo siriano ce ne sono purtroppo a migliaia. I tempi sono pertanto lunghissimi. Si è tentato di capire se attraverso determinati “corridoi umanitari” si potesse far arrivare in Europa Asan, ma ovviamente non aveva le priorità che vengono concesse ai minori o alle donne. Nel suo caso non si riesce a destare abbastanza interesse e deve pazientare, come molti altri, solo che nel suo caso c’è anche un tema di incolumità fisica che non può essere trascurato.»

I tempi di soluzione del caso non sono al momento definibili. Il “visto” dovrà essergli rilasciato dal consolato italiano locale, ma anche da quel punto di vista tutto tace. La A.cross, infatti, spiega che non sono mai stati contattati per verificare il loro impegno a dargli un lavoro e ad aiutarlo ad integrarsi. E il tempo passa, inesorabile.

Almustafa con i bimbi siriani aiutati dalla sua organizzazione

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