La rotta migratoria dall’Italia agli stati Uniti è stata una vera e propria diaspora, che anche oggi ha molto da raccontare. Filippo Tommasoli, fotografo e videomaker veronese, formatosi nel prestigioso atelier che porta il nome di famiglia, è volato a New York grazie al programma Erasmus for Young Entrepreneurs per ricordare la storia della rotta che, fino a due generazioni fa, ha segnato la nostra diaspora, quella verso gli Stati Uniti d’America.

Filippo, qual è stato il tuo percorso di formazione personale e come professionista?

«La fotografia è la mia vita fin da quando ero giovane: mio padre e mia madre sono fotografi, e anche mio nonno e il mio bisnonno (l’Archivio Tommasoli conserva le opere di tre generazioni di fotografi, a partire dal fondatore Silvio, e raccoglie l’attività artistica avviata a Verona dal 1906 ai nostri giorni, ndr). Nello studio fotografico della mia famiglia ho avuto l’opportunità di cimentarmi in molti tipi di fotografia, ritratti, paesaggi, reportage, still life, architettura, imparando vecchie e nuove tecniche, fotografia analogica e digitale.

Come fotografo professionista, cerco di sperimentare ogni giorno, concentrandomi su nuove idee e linguaggi. Penso che la fotografia non sia un modo di rappresentare il mondo, ma un modo di fare il mondo: confido nella forza creativa del linguaggio fotografico».

Com’è nato questo progetto che ti ha portato negli Stati Uniti?

«Nel 2017 ho fondato la Tommasoli Visual Factory, una start-up culturale che ha come obiettivo l’heritage d’impresa e del territorio. Vale a dire sia la documentazione del presente, effettuata attraverso il video storytelling, sia la raccolta ordinata e fruibile dell’eredità del passato. Un’attività di valorizzazione rivolta alle principali risorse dei nostri territori: l’impresa, l’arte e la cultura, il paesaggio.

Ho potuto poi candidarmi per l’Erasmus for Young enterpreneurs, un programma di scambio transfrontaliero, sostenuto dalla Commissione europea, che offre ai nuovi imprenditori l’opportunità di imparare da professionisti che gestiscono piccole o medie imprese in un altro Paese partecipante al programma. Io ho lavorato con Marco Evangelista, mio host, operatore del settore turistico con base a New York, dove abbiamo raccolto i frammenti della storia che volevamo raccontare».

Di cosa tratta il progetto?

«Si tratta di una storia di heritage travel, di radici perse e poi ritrovate. Un percorso a ritroso alla scoperta dei luoghi e degli italiani, figli dei figli di migranti, che hanno contribuito a costruire il sogno americano. Il progetto prevede la realizzazione di un documentario pilota al centro del quale c’è la storia di un personaggio dalle ascendenze italiane. Negli Usa ho raccolto elementi per raccontarne l’identità nel suo contesto di vita, poi quando lui verrà in Italia completerò il racconto seguendo le tracce a ritroso alla scoperta delle sue origini.»

Da dove hai cominciato?

La prima tappa del progetto mi ha portato nel famoso quartiere newyorkese del Bronx, uno dei cinque quartieri della Grande Mela, dove da decenni si trova una delle comunità italo-americane più autentiche e raccontate da cinema e letteratura. Qui, assieme ad alcuni autoctoni, ho avuto il piacere di approfondire la storia degli italiani a New York. Poi è stata la volta del quartiere di Bensonhurst a Brooklyn. Ultime, Staten Island e Long Island City».

Parla anche di te, questo progetto?

«Questo lavoro, nato dal desiderio personale di voler narrare gli States e le sue contraddizioni attraverso la mia lente, parla anche dell’eredità intellettuale della mia famiglia: il vedere il mondo e il raccontarlo attraverso un’attività archeologica, di ricostruzione storica, per meglio comprendere il presente. L’archivio Tommasoli si propone come “scrigno della memoria” di Verona attraverso il patrimonio fotografico e la conservazione della strumentazione. La mia prospettiva, così costruita, racconta la migrazione negli Usa che, come tante altre di oggi e di ieri, ci riguarda tutti, nel nostro viaggio topografico e immaginifico di scoperta e definizione personale».

Parliamo anche di integrazione: qual è la specificità del caso italiano a New York?

Filippo Tommasoli con il bassista e compositore americano Drew DiCamillo

«I 3.372.512 di italiani o discendenti di italiani nell’area di New York costituiscono il principale gruppo etnico e linguistico della grande area urbana. Questo è il frutto dell’emigrazione italiana a New York e negli Stati Uniti, dai tempi della grande migrazione a quelli delle mobilità transnazionali contemporanee.
Spesso, questi oltre tre milioni di connazionali o discendenti di nostri connazionali, non condividono la stessa dimensione storica. Per questo motivo sarebbe un’impresa disperata cercare un minimo comune denominatore fra i pizzaioli e i pasticceri di Brooklyn, i molti poliziotti e vigili del fuoco, i giudici e i professori universitari, gli imprenditori, i rappresentanti di grandi gruppi finanziari, i ristoratori alla moda, i galleristi, gli scienziati e gli artisti che affollano le vie della città.

Conviene piuttosto ascoltare le loro voci e penetrare attraverso di esse nella complessa stratificazione lasciata da oltre un secolo di arrivi dall’Italia a New York. Lo si vede anche nei luoghi che compongono il complesso mosaico newyorkese, ma pure in quelli radicati nelle memorie biografiche degli intervistati.»

Chi è il personaggio protagonista del documentario?

«Si tratta di Drew DiCamillo, bassista e compositore americano ma con la radici dell’albero genealogico radicate nello Stivale, a Caserta. Ora ho realizzato parte del progetto a New York, ma proseguirà quando lui potrà venire in Italia, sulle tracce delle sue origini, da cui nascerà il film pilota. L’obiettivo più ampio è di recuperare, insieme ai protagonisti, la memoria storica di un’Italia che ha tutta l’urgenza di una riqualificazione identitaria, non solo per loro ma anche per noi».

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