«Non voglio tornare adesso. Ti chiedo un regalo per il mio compleanno, ti chiedo di restare qui. Sto lavorando su una storia forte, un deposito di gas nervino in una base di Osama bin Laden».

Questa la richiesta al telefono della giornalista appassionata Maria Grazia Cutuli, 39 anni compiuti il 26 ottobre 2001 nella terra afghana, fatta a Carlo Verdelli, ai tempi vicedirettore del “Corriere della Sera”.

La sua voce e il racconto del collega del “Corsera” si possono riascoltare nella puntata di “Ossi di Seppia, quello che ricordiamo“, disponibile su “RaiPlay”.

L’inviata in Afghanistan

Inviata dopo la caduta delle Torri Gemelle che segnarono per sempre la storia moderna, Cutuli voleva rimanere sul fronte afghano dopo lo scoppio della guerra, il 7 ottobre 2001, per inseguire la sua ultima storia prima del “cambio della guardia”.

Quella telefonata, datata 19 novembre 2001, fu l’ultima al suo giornale, come ultimo fu il suo articolo pubblicato lo stesso giorno in cui morì, colpita alla schiena da colpi di pistola sparati da un gruppo di miliziani afghani, sulla strada da Jalalabad a Kabul.

Insieme a lei morirono l’interprete afgano e i colleghi giornalisti che viaggiavano con lei nella stessa auto: il reporter spagnolo Julio Fuentes de “El Mundo” e dell’agenzia di stampa Reuters, il cameraman australiano Harry Burton e il fotografo Azizullah Haidari.

Un attentato contro la stampa estera

“Un raid di morte” lo descrisse anni dopo un inquirente della Procura di Roma che sull’omicidio avviò subito una indagine. Si trattava di «azioni di guerriglia, volutamente dirette ed indirizzate solo a giornalisti stranieri che miravano a strumentalizzare i mezzi di informazione per convincere l’opinione pubblica occidentale che l’Afghanistan era assolutamente ingovernabile da parte di quelle forze di occupazione i cui Governi, invece, dichiaravano il contrario.»

Il 29 novembre del 2017 la corte d’Assise ha condannato due cittadini afghani ritenuti appartenenti al commando di killer: Mamur e Zar Jan. Per entrambi la pena inflitta è stata di 24 anni di reclusione nel proprio Paese, oltre al risarcimento danni ai familiari della giornalista e alla Rcs pari a 250mila euro.

In nome di Maria Grazia Cutuli

Esiste un premio internazionale dedicato alla memoria della giornalista uccisa ed è stato consegnato per la 17esima volta il 13 novembre scorso a Santa Venerina a Catania, terra di Maria Grazia Cutuli. L’edizione 2021 è andata a Clarissa Ward per la sezione stampa estera, Francesca Mannocchi per la stampa italiana e Giorgio Ruta per i giornalisti siciliani emergenti.

Hanno ritirato il premio anche i tre vincitori dell’edizione 2020, impossibilitati un anno fa a causa della pandemia: Rula Jebreal per la stampa estera, Nico Piro per la stampa italiana e Mario Agostino per i giornalisti siciliani emergenti.

E oggi, a Milano, la redazione del “Corsera” la Fondazione del Corriere della Sera, consegneranno simbolicamente a Patrick Zaki il premio “Maria Grazia Cutuli”, perché tuttora in cella e sotto processo per un suo articolo sulla minoranza religiosa copta del suo Paese. Lo ritireranno la professoressa di master dell’Università di Bologna di Patrick, Rita Monticelli, e al compagno di corso, Rafael Garrido.

Fonte di ispirazione per il giornalismo italiano

«Le recenti, dolorose vicende dell’Afghanistan ci hanno riportato alla mente e nel cuore il sacrificio di Maria Grazia Cutuli, il suo senso di giustizia, il suo credo nella libertà e nell’indipendenza dell’informazione. Il nostro Paese ha dato tanto per aiutare la crescita e per stabilizzare l’Afghanistan: quanto è stato fatto e testimoniato non andrà perso ma resterà come punto di ripartenza per un impegno di civiltà». Queste le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordando oggi la giornalista siciliana.

Carlo Verdelli, parlando della collega Maria Grazia Cutuli, confessa «La vera ragione per cui ho detto “Sì, resta” è perché ho sentito che lì passava la sua felicità professionale e umana. E quindi, in un gioco impossibile, se tornassi indietro le direi di nuovo di restare là e scrivere il pezzo sul gas nervino».

La passione che porta ancora oggi giornaliste e giornalisti, molto spesso senza un contratto con testate nazionali, a spostarsi dai confini d’Europa con la Bielorussia passando per il Medioriente e l’Africa.

Precari con alle spalle progetti indipendenti spesso finanziati dagli stessi lettori attraverso campagne di crowdfunding, per onorare un giornalismo di qualità che insegue il lavoro nobile di portare l’informazione a portata della comunità.

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