La ventiquattresima edizione di Festivaletteratura di Mantova è iniziata con la consueta inaugurazione in piazza Sordello in cui esponenti del comitato organizzatore e dell’associazione Filofestival si sono avvicendati per spiegare la peculiarità di questo «programma in salsa Covid» che vede ridimensionato il numero degli incontri in presenza, rispetto gli anni passati, a favore di altre nuove iniziative.

Il primo giorno non è l’ideale per valutare l’efficienza organizzativa del festival, meglio sospendere il giudizio e godere della iniziative. È sempre una piacevole sorpresa trovarsi a Mantova in giorni come questo, stretti tra la folla dei lettori provenienti da tutto il Paese, i gruppi di volontari e volontarie in maglia blu, che si muovono disciplinatamente, e gli autori e le autrici, mimetizzati tra le persone, pronti a comparire come star agli eventi.

È successo con Suad Amiry, che conosce l’italiano e ha salutato con calore il suo pubblico, prevalentemente femminile, in Piazza Castello all’evento Siamo qui ma siamo assenti, dialogando con l’arabista e traduttrice Elisabetta Bartuli. Palestinese, residente a Ramallah, Amiry è architetta di professione e ha confessato che non pensava di diventare scrittrice, piuttosto attrice, ma poi successe un fatto che la portò alla scrittura. Durante le ripetute invasioni degli israeliani, dal novembre 2001 al settembre 2002, l’autrice tenne un diario in cui raccontava l’assedio esterno e la forzata reclusione domestica in compagnia della suocera, una convivenza non meno opprimente.

Sharon e mia suocera (Feltrinelli, 2003) ebbe un buon successo e le fu chiesto di scrivere un altro libro. Allora continuò fino allo scoppio della guerra in Siria ed essendo sua madre siriana, sentì di dover scrivere della famiglia materna e di un mondo che non esisteva più in Damasco (Feltrinelli, 2016).

L’autrice racconta di sé e della specificità del popolo palestinese che, dalla diaspora del 1948, quando fu istituito lo stato di Israele, ha visto cambiare radicalmente la sua vita, «mutare in catastrofe la libertà». La sua famiglia viveva a Jaffa e riparò ad Amman dove Amiry crebbe come profuga, viaggiando tra Damasco, Beirut e il Cairo, con i racconti dei genitori che omettevano gli orrori della guerra e rimandavano invece a un passato di benessere.

La copertina dell’ultimo libro
di Suad Amiry edito da Mondadori

Il pittoresco titolo del suo ultimo libro, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea (Mondadori, 2020), allude a un prezioso abito di lana Manchester e a un bovino appartenente a un ricco palestinese. È una storia ambientata nel 1947 e narra l’amore tra due adolescenti e, attraverso le loro vicende, la Jaffa dei suoi genitori, una città dinamica, aperta e accogliente, che ospitava al suo interno diverse comunità, un polo d’attrazione per l’economia, vivace e ricca, «una speranza della Palestina».

Questo libro è diverso dai precedenti perché è un romanzo, ma la finzione è strettamente intrecciata con la realtà e presenta un importante richiamo ai giorni nostri. Mostra una società in cui lo spazio di movimento era immenso, basti pensare che suo nonno andava frequentemente in taxi da Jaffa a Beirut, un agio simile a quello di cui possiamo valerci oggi in Europa, senza confini, senza documenti. Poi lo spazio si è ristretto e si è persa la straordinaria ricchezza della mescolanza, «il profumo della diversità, gli ingredienti della relazione, le spezie della vita».

Eppure, sottolinea Elisabetta Bartuli, nonostante le vicende narrate siano tristi, non portano alla disperazione perché si coglie un tono che ricorda quello dei cantastorie, riuscendo a narrare vicende terribili con serenità, quasi con il sorriso. L’autrice scrive in inglese per facilitare la traduzione e dissemina sulle pagine termini in arabo per rendere «un sentimento, un’atmosfera».

A una domanda dal pubblico su quanta politica si ritrovi nei suoi libri, Suad Amiry risponde che i palestinesi «respirano sempre politica» e aggiunge che scrive «dei fatti della vita, delle nascite e delle morti, della povertà, del lavoro, dei legami familiari e se questo è politica, allora i suoi libri possono a buon diritto dirsi politici». Quanto al messaggio politico che si può evincere, è molto semplice e presto detto:«basta guerra!».

Paola Gandolfi e Luca Scarlini

Un altro evento del pomeriggio ha avuto luogo in Tenda Sordello, Piccola guida alla città di Tunisi in libri, con lo scrittore e drammaturgo Luca Scarlini e l’arabista e antropologa Paola Gandolfi.

Ogni edizione del festival si occupa di una città e della sua produzione letteraria, quest’anno la capitale della Tunisia è la protagonista di alcuni brevi incontri, di un’ampia installazione web e di collegamenti radiofonici che si svolgono nelle cinque giornate della manifestazione.

Il primo incontro ha fatto emergere l’anima cosmopolita di una città in cui i flussi migratori in arrivo e partenza l’hanno sempre caratterizzata. Non si conosce abbastanza, per esempio, dei tanti italiani che vi si stabilirono, i minatori sardi, le balie toscane, i contadini siciliani, perché adesso si è invertita la tendenza e si discute solo di questo.

Eppure la mescolanza delle genti ha prodotto nel tempo una ricchezza umana e creativa, ha nutrito il desiderio di bellezza e libertà che è sfociato, come sappiamo, nella Rivoluzione dei Gelsomini del 2010, che ha generato le Primavere arabe negli stati vicini.

Proprio la produzione artistica e letteraria ha sostenuto, accompagnato e seguito il processo di cambiamento del Paese e si è concretizzata, prevalentemente in lingua araba e francese, in forma di romanzi, racconti, fumetti, fotografia, graffiti, musica. Le opere attraversano discipline diverse e fanno emergere un’idea di città pulsante, in continua trasformazione. Sul sito del festival è possibile consultare un’accurata bibliografia per approfondire la produzione letteraria tunisina visitando il sito temporaneo 2020.festivaletteratura.it.