La prima volta che ho incontrato Gino Strada è stato nel 1999 a Bologna. Venne alla facoltà di Scienze Politiche a parlarci di Emergency, l’associazione umanitaria internazionale che aveva fondato cinque anni prima con la moglie, Teresa Sarti Strada, e una ventina di amici. «Non tanti medici, erano scettici», disse.

Era stato pubblicato da poco il suo libro Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra.

La copertina di Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra, uscito nel 1999 con Feltrinelli e oggi fuori catalogo.

Fu anche la prima volta che sentii qualcuno dire pubblicamente, con una chiarezza dalla quale non si torna indietro, che più del novanta per cento delle vittime di guerra sono civili. Migliaia di donne, di bambini, di uomini inermi uccisi ogni anno nel mondo.

C’era qualcosa di ipnotico nella ruvidezza che lo caratterizzava perché sentivi che di quella faccia seria, che spesso a tratti diventava un cipiglio, ti saresti potuto fidare ciecamente.

Anche per quella sua sublime e necessaria scortesia, Gino Strada incarnò una verità che la politica non poteva né reggere, né tantomeno permettersi di sottoscrivere, a meno di rinunciare all’opportunismo velato da opinioni neutre che ammantava e ammanta tutt’oggi ogni discorso pubblico sulla guerra e sulla sofferenza dei popoli.

Ci descrisse, con occhi spezzati ma straordinariamente luminosi, gli effetti dei conflitti sulla popolazione civile, e di come le guerre lascino tracce indelebili anche dopo la loro conclusione.

Le mine antiuomo, per esempio, quei pappagalli verdi del titolo del libro, che a distanza di anni continuano a mietere vittime fra i civili innocenti.

Emergency si impegnò a lungo e con incrollabile determinazione affinché il nostro Paese mettesse al bando queste armi.

E il 22 ottobre 1997 il governo italiano approvò la legge n. 374, che impedisce la produzione e il commercio delle mine antiuomo. Ma i 110 milioni di ordigni disseminati in 67 Paesi continuano ancora oggi a ferire, mutilare, uccidere.

Per noi, giovani studenti che sognavano di cambiare il mondo, Gino Strada era già allora una figura enorme, la prova vivente che sì, era possibile. Era possibile fare qualcosa di concreto per contribuire a riparare ai danni collaterali causati dal potere fine a se stesso, dal denaro che da mezzo diventa scopo, dalla guerra, dalle ingiustizie che occupano la maggior parte dei tasselli di quello schizofrenico mosaico che è il mondo in cui viviamo.

Il post con cui Emergency ha dato ieri notizia della scomparsa del fondatore Gino Strada.

Quella volta ci salutò dicendoci che, tra tutte le ingiustizie, il crimine vero era l’indifferenza, il non aiutare gli altri. Disse anche che, riguardo a questo, non avremmo avuto mai nessuna scusa buona.

Quello che Gino Strada ha costruito nel corso della sua esistenza è impressionante, per i numeri e per l’impatto umanitario del suo intervento nei territori in cui ha operato: oltre 11 milioni di persone in 19 Paesi sono state curate gratuitamente da Emergency dal 1994 al 2020, ovvero «una ogni minuto», come lui amava ripetere.

È stato tante cose, Gino Strada: chirurgo di guerra, attivista, scrittore, voce assillante e impietosa per le coscienze sporche dei governi di mezzo mondo, non ultimo il nostro.

Un utopista pragmatico. Un uomo integralmente libero.

Ma quello che la sua vita ha significato di più profondo sta in un concetto semplice e chiaro, come era lui:

aiutare chi ha bisogno è la più grande forma di protesta al mondo.

«Il mondo dovrebbe essere così: chi ha bisogno va aiutato», diceva. Questo ci ha insegnato Gino Strada. Ci ha insegnato che siamo tutti Emergency. Ben più che italiano, ti faceva sentire fiero di essere umano.

È scomparso prematuramente perché si è speso oltre ogni misura. E d’altronde non avrebbe potuto fare diversamente.

Qualche anno fa ebbe un ennesimo infarto, ma voleva a tutti i costi tornare in Afghanistan. L’attore e scrittore Moni Ovadia lo chiamò su richiesta di Teresa Sarti Strada, sua moglie, per cercare di dissuaderlo. La sua risposta fu, come sempre, immensa e definitiva: «Io devo tornare là, perché i miei malati mi aspettano».

“Ciò che dà un senso alla vita, lo dà anche alla morte”.
(Antoine de Saint-Exupéry)

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