Esiste una squadra di atleti olimpici che non ha inno nè bandiera.

Ciò che accomuna i suoi membri non è il paese di orgine, nè la lingua parlata, nemmeno il cibo preferito o il luogo in cui vivono ora. Li unisce la passione per lo sport, la caparbietà di allenarsi anche quando tutto sembrava perduto, l’essere stati costretti a lasciare la loro casa. Con tutto ciò che questo significa.

È la Squadra Olimpica dei Rifugiati del CIO (Comitato Olimpico Internazionale). La sua presenza a Tokyo è stata fortemente voluta, poiché rappresenta la solidità della collaborazione ventennale dell’UNHCR con il Comitato dei giochi olimpici.

Il debutto a Rio 2016

La squadra dei rifugiati ha partecipato per la prima volta alle Olimpiadi nel 2016, a Rio, suscitando molta curiosità ed ammirazione. Erano solo in dieci: due nuotatori, due judoka e sei corridori. Il messaggio che portavano è stato potente: un gruppo di persone a cui apparentemente la vita aveva tolto tutto, volevano mostrare di essere più forti delle circostanze. Volevano realizzare un sogno, raggiungere traguardi enormi e farlo sotto gli occhi del mondo.

Quell’anno Popole Misenga, il portabandiera della Cerimonia di Chiusura della squadra, ha vinto il suo incontro di judo di apertura per raggiungere gli ottavi nella sua categoria sotto i 90 kg, mentre Yusra Mardini ha vinto la sua batteria dei 100 m farfalla ma non è passata alle semifinali.

La loro presenza a Rio 2016 ha ispirato tantissimi giovani che vivono la condizione di rifugiato (ossia una persona costretta a fuggire dal proprio Paese a causa di persecuzioni, guerre o violenze secondo L’UNHCR).

Nel 2017 è nata la Olympic Refuge Foundation per assicurare protezione, sviluppo e crescita di bambini e ragazzi in situazioni vulnerabili di tutto il mondo, attraverso lo sport. Sono stati quindi avviati programmi giovanili e attività sportive in almeno 20 paesi; sono stati riabilitati campi sportivi in diversi campi rifugiati, e fornito kit sportivi per giovani rifugiati.

A Tokyo 2020 ora, sono ben 29 gli atleti che stanno partecipando. Lo stesso Filippo Grandi, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite, ha voluto inviare un messaggio personale di speranza e sostegno alla squadra, assicurando la sua presenza e il suo tifo. Sono presentati con l’acronimo francese EOR (équipe olympique des réfugiés) e alla cerimonia inaugurale hanno sfilato per secondi, subito dopo la Grecia che per statuto sfila sempre per prima.

Gli atleti e le loro storie

Gli atleti del team dei rifugiati provengono da 11 stati d’origine e da 13 stati che li hanno accolti. Sono invece 12 le discipline in cui gareggiano: atletica leggera, badminton, boxe, canoa, ciclismo su strada, judo, karate, tiro, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta libera.

Le loro storie si possono leggere sul sito ufficiale delle Olimpiadi, e sono storie che vale la pena conoscere. C’è Luna Salomone, originaria dell’Eritrea che gareggerà nel tiro femminile, allenata da Niccolò Campriani, tiratore sportivo italiano tre volte campione olimpico.

Eldric Sella Rodriguez, invece, è nato in Venezuela, paese colpito da una fortissima crisi umanitaria, è allenato dal padre e compete nella boxe.

Dina Pouryounes Langeroudi scappa dall’Iran e trova asilo in Olanda dove inizia a praticare il taekwondo. Ha già vinto 34 medaglie di importanza mondiale, portando la sua passione e la sua abilità in giro per il mondo.

Sanda Aldass fugge dalla Siria attraverso la pericolosa rotta che attraversa la Turchia. É madre di tre figli e nei Paesi Bassi ha trovato la possibilità di praticare il judo, disciplina che oltre a darle una possibilità di realizzazione, l’ha anche aiutata a farsi conoscere e a stabilirsi nel suo nuovo paese.

Tutti questi atleti portano un doppio messaggio. A chi è rifugiato dicono di essere ben più di un gruppo di sopravvissuti. Al resto del mondo ricordano di mantenere viva l’attenzione globale sulla portata della crisi internazionale dei rifugiati, il cui numero è in costante aumento.

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