It’s coming home? No, it’s coming Rome. Cambio di consonante e soprattutto di destinazione. Sulla consolle di Wembley agli inglesi, sempre attenti a corsi e ricorsi, converrebbe cambiare disco.

Non portò bene nel 1996, quando i sogni di gloria s’infransero ai rigori contro la Germania, men che meno ora nella finale europea persa dal dischetto contro l’Italia. Il filo nero lo intreccia il povero Gareth Southgate, il ct gentiluomo; fatale il suo errore da giocatore nel 1996, altrettanto fatale da allenatore ieri sera, se i tre rigori sbagliati dai bianchi hanno la paternità dei suoi cambi. Una iattura.

A Londra tutto era tutto pronto per la grande festa. Il gol dopo appena due minuti di Shaw, aveva di fatto dato il via alla grande sbornia. Troppo presto. Tutta quella spocchiosa sicurezza celava tuttavia ben altro, nodi che man mano che i minuti sul prato verde di Wembley passavano, al pettine sono venuti fuori.

Nodi di paura, che alla fine si sono tradotti in un incubo dal quale sarà molto difficile uscire.

Per la boria di ritenersi i maestri e i migliori, gli inglesi il mondiale si degnarono di andarlo a giocare per la prima volta solo in Brasile nel 1950. Prima, no. Così negli anni Trenta vincemmo tutto noi. Ciapa e porta a casa. I Maestri ne hanno vinto uno nel 1966, proprio a Wembley. Ci fosse stata la Var, ma sarebbe bastato un guardalinee meno compiacente, nella bacheca della F.A. non avrebbero con tutta probabilità nemmeno quello. Poi solo sonore bocciature e cocenti delusioni.  

Altro che «It’s coming home». Hanno perso due volte, ieri sera: la partita, e un po’ la faccia quando hanno abbandonato il campo senza attendere la premiazione dei loro avversari. Una brusca caduta di stile nella patria del fairl play. L’ autogol dell’etica è il più brutto e rimane marchiato a lungo.

Veniamo a noi. L’ Europeo premia l’Italia, la squadra più forte, nell’accezione più pura del termine. È emersa in tutto il suo vigore la forza di un gruppo solidissimo che Roberto Mancini ha saputo costruire nel silenzio quando nessuno ci credeva.

Due anni fa prese in mano le macerie di una baracca crollata miseramente nell’infausta notte di San Siro, lo spareggio mondiale contro la Svezia, il momento più basso nella storia del calcio italiano. Da lì l’ha portata sul tetto d’Europa, dove non stavamo da 53 lunghissimi anni.

Una squadra che ha giocato bene quando c’era da giocar bene, e ha saputo stringere i denti e soffrire quando c’era da soffrire. Una vera squadra, insomma. Come del resto lo è sempre stata l’Italia, nei suoi giorni più belli. È il suo karma.

Credici, lotta, soffri, e vedrai che ce la fai: un messaggio che lo sport offre come lezione di vita.

Mancini ha plasmato e forgiato un gruppo di amici, a partire dai suoi. Lo struggente abbraccio tra le lacrime con Luca Vialli, un fratello, va oltre qualsiasi cosa e ce lo terremo dentro a lungo, perché certe cose non solo ti scaldano il cuore, ma telo scolpiscono proprio.

Oggi in Inghilterra erano pronti a indire un bank holiday per la grande festa. Vanno al lavoro nel silenzio del «Tube» e la festa la facciamo noi, da Trieste in giù per dirla con le parole della Raffa nazionale.

Mi piace invece l’idea di rendere l’11 luglio il giorno della nostra Nazionale; 39 anni fa la notte di Madrid, ora quella di Londra. Notti magiche, queste sì.

Sei anni fa scrissi un libro sulla prima vittoria italiana a Wembley, il 14 novembre del 1973, quando un gol allo scadere di Capello profanò l’erba del tempio del dio pallone. Alla vigilia i tabloid ci derisero, annunciando che trentamila camerieri italiani avrebbero invaso Wembley.

La sciocca boria non pagò allora, e non paga oggi che i tempi son cambiati e a Londra dall’Italia giungono anche fior di ricercatori scientifici e manager dell’alta finanza.

«Gli italiani vanno alle partite di calcio come fossero guerre, e vanno alle guerre come fossero partite di calcio» sentenziò con una punta di perfida ironia Winston Churchill.

Vero, verissimo. D’altronde, avremo mille difetti, ma alle guerre continuiamo a preferire di gran lunga le partite di calcio. E non c’è da vergognarsi per questo, anzi. Vorrai mica vedere che forse alla fine l’abbiamo spuntata noi anche per questo?

Abbracciamoci, ce lo meritiamo.

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