È lunedì mattina e dalle finestre dell’albergo Cesa Padon, non lontano da Arabba, nel cuore delle Dolomiti bellunesi, entra la luce accecante riflessa sul ghiacciaio della Marmolada. Una vista così solleverebbe il morale di chiunque, eppure anche in una giornata dal cielo meravigliosamente terso, la proprietaria Marinella Crepaz vede nuvole all’orizzonte. Le chiedo come va, da cliente, e lei mi risponde con un sorriso amaro ma composto, la professionalità prima di tutto: «Avrà sentito la notizia. Per noi è una mazzata incredibile. Questa doveva essere la settimana delle riaperture, l’inizio vero della stagione, e invece…». 

E invece bisognerà ancora aspettare. Cosa vuol dire per la comunità l’assenza dello sci? 
«Tutto. Il turismo muove il lavoro di tutta la vallata. È una reazione a catena: se gli impianti di risalita sono chiusi non lavorano i ristoranti, i bar, gli alberghi… se non lavorano gli alberghi, niente forniture alimentari, niente servizi, niente manutenzione, nemmeno le lavanderie che lavorano con la biancheria degli hotel. Si ferma tutto.»

Eppure qui intorno si può fare molto più che sciare…
«Ma certo, ci sono i sentieri per le ciaspolate, le attività all’aperto sono moltissime, l’aria buona e il panorama sono un motivo sufficiente per venire da queste parti, però è ovvio che a noi, di fatto, è mancata un’intera stagione. Qui chiudiamo poche settimane all’inizio della primavera, e il primo lockdown ci ha colpito in pieno, poi la stagione estiva è andata molto bene per fortuna, ma con l’autunno e l’arrivo della stagione sciistica non si è più fatto niente.»

In termini di fatturato, come quantifica le perdite?
«Almeno il 30% del fatturato 2020, e per quest’anno siamo riusciti a lavorare solo per un paio di settimane.»

E le associazioni di categoria si stanno muovendo?
«Poco o niente, qualche flashmob, ma alla fine non c’è stata nessuna visibilità… cosa vuole, qui c’è gente di montagna, testa bassa e lavorare, quando arriva una bufera come questa si tiene duro e si aspetta che passi.»

Tra l’altro questo è territorio di confine.
«Esatto! Pensi cosa hanno significato per noi tutte queste limitazioni sui movimenti tra regioni. Il comprensorio del Sellaronda è a cavallo tra le province di Belluno, Trento e Bolzano, per cui anche se aprissero gli impianti rimarrebbe comunque divieto di spostamento tra regioni e province autonome. Noi, qui sul versante veneto, lavoriamo sempre a strettissimo contatto con le comunità dall’altra parte: Canazei, Corvara… oggi è tutto bloccato.»

E sono sempre di più i comuni veneti che vogliono passare di là.
«Qui si toccherebbe un argomento lunghissimo. Sono cent’anni che tutti i sindaci dei paesi qui intorno lottano per passare sotto il Trentino-Alto Adige. I motivi sono tanti…»

Lei si è confrontata con gli albergatori trentini e altoatesini? Ci sono differenze?
«Dal giorno alla notte. In termini di organizzazione, di aiuti e sovvenzioni, di lavoro per mantenere vivo il sistema della montagna ed evitare lo spopolamento… non c’è paragone. Noi naturalmente con loro dobbiamo convivere…»

Convivere vuol dire competere.
«Bravo. Con sistemi fiscali diversi e aiuto alle imprese diverso. Capisce che non è facile. In ogni caso si supera tutto, ma una cosa è certa, per la montagna ci vuole rispetto.»

Saluto l’albergatrice e vado ad approfittare della giornata di sole. Per me la tranquillità delle piste all’ombra del Sella è un’occasione irripetibile per passeggiare nel silenzio, sulla neve.

Mi fermo ad Arabba, diretto verso il Passo Pordoi. Qui il day after della prima bomba sganciata dal ministro della Salute Speranza è a dir poco spettrale. La gente del posto lavora sodo, come sempre, ma con un’ombra di amarezza sul volto. Il dubbio che ne valga la pena. I parcheggi delle seggiovie, di solito brulicanti di sciatori, sono deserti innevati. Le serrande abbassate e coperte da metri di neve, scesa beffarda sulle piste off limits, sono un segno chiaro, per molti non conviene aprire, la stagione è finita prima di iniziare. 

Entro in un bar e un burbero barista mi porge un espresso. 
Chiedo anche a lui come va. Mi guarda rabbioso. Non ha la pazienza della signora Crepaz: «La stagione è finita. Non contiamo nulla. Vengono solo quando è ora di pagare». Conciso.

Gli faccio un in bocca al lupo ed esco dal bar. Voglio vedere le piste. La strada da Arabba al Pordoi è pulita e salata, ai lati mura di neve alti anche due metri. Pochi chilometri di curve e arrivo al parcheggio, perfettamente spalato, di una seggiovia. Qualche famiglia ha portato i bambini a scivolare con la slitta sulle piste da sci tirate dai gatti nella notte. Era tutto pronto. Qualche sciatore impenitente si organizza e sale in macchina fino al passo per poi scendere sulle piste completamente deserte, il privilegio di abitare in paradiso. Io cammino in salita sulle piste vuote e ammiro il panorama. L’occhio però cade sugli impianti fermi e i rifugi con le sedie sdraio già impilate sui terrazzi. Era tutto pronto. 

Arrivato in vetta mi siedo con la mia ragazza nell’unico rifugio aperto, ordino una birra e a portarmela è un volto familiare. Ci conosciamo? È la cameriera che mi ha servito la cena all’hotel Cesa Padon, la sera prima: «Do sempre una mano volentieri alla signora Marinella! Sono di Arabba e lavoro a chiamata, di solito qua al rifugio, ma poi vado dove serve. Pensi che qui erano già stati assunti gli stagionali, prendono lo stipendio più vitto e alloggio, la maggior parte vengono dal sud. Adesso prenderanno solo vitto, alloggio e aria buona – mi sorride allargando le braccia –. Andiamo avanti…».

Rimango a finire la birra al sole, nel silenzio delle discese deserte, e mi godo il panorama. Le pareti del Sella incutono quasi timore, e allora mi vengono in mente le parole della Signora Crepaz, un nome che i monti li ha dentro: per la montagna ci vuole rispetto. 

E anche per chi ci lavora. 

(fotografie di Filippo Baldi)

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