Ottobre 2020. La Commissione europea attiva la procedura di infrazione contro l’Italia per non aver istituito un deposito nazionale dove ospitare in sicurezza le scorie nucleari e i rifiuti radioattivi. Era un impegno preso nel 1987 quando sono stati fermati i quattro siti nucleari di produzione elettrica presenti nel territorio.

5 gennaio 2021. Il governo italiano, attraverso Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari) pubblica la Carta Nazionale delle 67 aree “potenzialmente idonee” a ospitare un Deposito Unico Nazionale per ospitare i rifiuti radioattivi sino al loro decadimento e avvia un programma di consultazione pubblica. L’entrata in esercizio dell’impianto, secondo quanto previsto dal Decreto legislativo 31/2010, è prevista per il 2029.  

Scorie nucleari e rifiuti radioattivi sono termini che nell’immaginario collettivo sono associati a rischio, pericolo, evocano disastri irrimediabili e l’opposizione di tutti i sindaci e i presidenti di regione interessati è stata immediata. Alla sollevazione non si è trovata altra risposta che inserire un emendamento di proroga dei termini nel solito decreto Milleproroghe.

Una decisione incomprensibile. Si è preferito posporre l’introduzione di una gestione dei rifiuti nucleari al massimo livello possibile di sicurezza e procrastinare uno stoccaggio precario in siti non completamente idonei e più rischiosi pur di non affrontare apertamente e pubblicamente il problema. La politica ha messo al primo posto il consenso immediato.

Chi genera i rifiuti nucleari

Normalmente si pensa che i rifiuti radioattivi siano solo quelli generati dalle centrali di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta), dall’impianto Fabbricazioni Nucleari di Bosco Marengo (Alessandria) e dai tre centri di ricerca sul ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera) non più operative da quando un referendum ne decretò lo stop e il “decommissioning“.

Il pregiudizio antinucleare porta però a sottacere un punto chiave: si continuano a generare quotidianamente rifiuti radioattivi in settori importanti della nostra economia, diversi dalla generazione elettrica.

Non è un caso che circa l’80% dei 95.000 metri cubi di rifiuti nucleari da sistemare nel futuro Deposito Unico Nazionale proverranno dalla sanità e dall’industria.

Rifiuti sanitari radioattivi si generano non solo nei reparti di medicina nucleare per la diagnostica, le terapie oncologiche, la ricerca scientifica e nei centri che producono radiofarmaci, ma anche nei laboratori clinici di analisi biologiche e nei reparti dell’industria radio-farmaceutica. La terapia molecolare, essendo altamente selettiva, è utile per colpire cellule cancerogene limitando l’esposizione alle radiazioni della parte sana; resta insostituibile per la cura dei tumori della tiroide, al fegato, alla prostata. Ne fa un uso intenso la medicina Veronese.

Il materiale nucleare viene usato anche in molte attività industriali: ad esempio per verificare le saldature e ricercare i difetti in componenti meccanici, per sterilizzare alimenti, per misurare spessori, per calibrare strumenti. Queste sorgenti trovano applicazione nell’industria cartaria, alimentare, automobilistica e aeronautica.

Siamo tutti “felici consumatori” di radiazioni nucleari.

Dove vengono depositati questi rifiuti

Attualmente, i rifiuti radioattivi vengono stoccati in una ventina di strutture temporanee; molte sono sature, vecchie e richiedono periodici e costosi interventi di manutenzione. Sogin fa sapere che per questo servizio stiamo sostenendo un costo di circa 170 milioni di Euro l’anno di cui 60 milioni per l’affitto di depositi all’estero. C’è quindi  assoluto bisogno di una destinazione definitiva, sicura, più efficiente come ci chiede l’Europa.

Come possono essere classificati i rifiuti radioattivi

Per una corretta gestione occorre classificare i rifiuti nucleari a seconda del contenuto di radioattività e del tempo necessario a consentirne poi lo smaltimento convenzionale.

Il Decreto Ministeriale del 7 agosto 2015  li distingue in macro categorie:

  • rifiuti a vita molto breve. Sono materiali che hanno avuto leggero contatto con ambienti radioattivi: guanti, camici, eccetera
  • rifiuti di attività molto bassa e rifiuti di bassa attività che richiedono  almeno 300 anni per raggiungere un livello di radioattività tale da non generare danni per la salute e per l’ambiente; sono compresi in questa categoria la maggior parte dei rifiuti provenienti  dalla sanità e dall’industria. Saranno stoccati nel Deposito Unico Nazionale
  • rifiuti di media attività e di alta attività, quelli che perdono la radioattività in migliaia di anni, provenienti  dalle centrali elettriche o da attività militari. Per  essi è previsto lo stoccaggio temporaneo nel nuovo Deposito Nazionale in attesa di uno smaltimento in un sito geologico sotterraneo da individuare a livello europeo.

Come sarà organizzato il futuro deposito

Occorre dire che le tecniche di trattamento sono da tempo consolidate, standardizzate secondo le linee guida della Iaea (International Atomic Energy Agency), praticate nella totalità dei Paesi che dispongono di attività nucleare civile,  senza alcuna evidenza di rischio.

La scelta del sito avverrà fra le 67 zone italiane che soddisfano specifici criteri ambientali: scartate ad esempio aree vulcaniche, sismiche, soggette a frane, inondazioni, sopra determinate latitudini o troppo vicine alla costa.

Il deposito occuperà un’area di 150 ettari e sarà costruito in modo da garantire per più di 300 anni la totale separazione e assenza di impatto tra la radioattività residua dei rifiuti e le cose, le persone e l’ambiente.  Questa separazione  avviene confinando il rifiuto entro celle con cinque “barriere” impermeabili, poste all’interno di 90 costruzioni in calcestruzzo armato.

Saranno necessari almeno quattro anni per costruirlo. Un investimento di circa 900 milioni di euro che sarà finanziato in parte da una componente tariffaria da inserire nella bolletta elettrica, e in parte attraverso una tariffa di conferimento che i produttori privati (come quelli medicali) corrisponderanno all’esercente del deposito.

Come avvenuto in altri Paesi europei, la sua realizzazione offre delle opportunità per le comunità locali che lo accolgono, un potente fattore propulsivo di sviluppo economico, occupazionale, tecnologico e, perfino, turistico. Si stima che la costruzione genererà oltre 4.000 posti di lavoro l’anno per i 4 anni di cantiere  e fino a circa 1.000 unità durante la fase di esercizio.

Non sembra esserci motivo per opporsi al progetto, anzi. Forse manca una corretta e diffusa informazione.

Nota curiosa

Daniele Pane, sindaco leghista di Trino Vercellese si è dichiarato, unico in Italia, disponibile ad accogliere nel suo comune il Deposito Unico Nazionale ma il comitato tecnico Sogin l’ha escluso. Il sindaco dimostra di non aver capito che la sua zona non presenta tutte le necessarie caratteristiche ambientali, nonostante il suo paese ospiti, da oltre trent’anni,  uno dei depositi provvisori da chiudere.

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