18 dicembre 2020, Sir James Paul McCartney pubblica l’album McCartney III e, in pochi giorni, guadagna il primo posto nelle chart UK e USA.

Dato che l’ormai anziano musicista viene etichettato in ogni dove come l’artista musicale più bravo, bello, alto, aitante, magnifico vincente, vendente e glorioso delle due ultime ere geologiche, la cosa non dovrebbe suscitare grosso scalpore. A ben vedere, però, ciò non accadeva da più di 30 anni. Non accadeva, nello specifico, dalla pubblicazione di Flowers in the Dirt (capolavoro); correva il 1989, ossia un paio d’anni prima che il sottoscritto iniziasse a seguire l’artista, con una discreta dose di ossessione (tocca ammetterlo).

Da allora, non li elenco per non annoiare, si sono susseguiti diversi lavori, frutto di una creatività straripante che non sempre ha incontrato, ciònondimeno, il favore del pubblico. Tra i 9 LP totali, un paio dei quali raccolte di cover con qualche grande inedito, dal 1990 in poi Paul ha pubblicato musica di gran classe (citazione d’obbligo per Flaming Pie e Chaos and Creation in the Backyard), qualche progetto di buon livello (Off the Ground, Run Devil Run) e altri lavori decisamente  più opachi, velocemente dimenticati (Driving Rain e Memory Almost Full, ad esempio). Sarà che gli ho portato rogna, ma di numeri uni in entrambe le sponde dell’Atlantico, nemmeno l’ombra.

Nel 2018, poi, un nuovo exploit da classifica con Egypt Station, che ha raggiunto la vetta yankee fermandosi a un ottimo terzo gradino del podio in UK.

Arrivando all’ultimogenito, urge da subito sottolinearne un paio di aspetti. Trattasi, innanzitutto, del numero 3 di una trilogia con caratteristiche ricorrenti; McCartney I (secondo in UK e primoin USA) è del 1970, quando Paulie risultava esaurito dal termine di apocalittica esperienza artistica condotta assieme ad altri 3 compaesani che, per ingannare il tempo, avevano deciso di stravolgere il mondo della musica per sempre o giù di là. McCartney II (primo in UK e terzo in USA) è del 1980, invece, anno in cui il medesimo menestrello risultava affranto dalla combo arresto per droga-tramonto di altra avventura con ulteriore gruppo, forse meno mastodontico ma capace di mietere record su record in ogni galassia (i Wings, per notizia).

Nel 2020, trovandosi in casa da solo o quasi causa pandemia, a cinquantanni dal primo LP col suo cognome, Paul ha deciso di ricorrere alla stessa formula dei precedenti 2: mano a ogni strumento esistente (nelle note se ne elencano 14), “self made recording” nello studio di casa, e via. Ciò rende il successo in classifica, a mio giudizio, qualcos’altro di stupefacente nella sessantennale carriera del ragazzo di Liverpool. Non mi risulta vi siano altri esempi di ottantenni (manca un anno e mezzo a essere precisi) che costruendo da soli, in casa, un LP da zero abbiano ottenuto tanto successo.  Ma nemmeno di trentenni, a volerla dire tutta.

Molto valida, e sicuramente influente nel successo mondiale, anche la campagna grafico-mediatica dell’ultimo progetto, essenziale ma scaltra.

Arrivando al merito, non intendo tediare alcuno con troppi giudizi personali, certamente annebbiati dall’ammore (2 emme volute anzichenò) né tanto meno con il fastidiosissimo Track-to-track. Cercando di limitarmi, sottolineo la grave mancanza di una ballata piano e voce, la specialità di casa, che fatico a perdonare al mio eroe. Segnalo inoltre, per onestà, un paio di schifezze: Deep Down risulta, alle mie orecchie, quasi inascoltabile. Priva di qualsiasi spunto musicale interessante, è troppo lunga, ripetitiva e ha un testo imbarazzante. Pretty Boys, invece, sa tanto di già sentito (arpeggi identici in Flamming Pie), con cori buttati lì e melodia che traballa.

Ora le buone notizie: Lavatory Lil è semplice e genuina e tira che metà basta. Slidin’ è sagace e speziata, in bilico tra Rock e R&B, ottimamente prodotta, davvero riuscita. Poi la perla: When Winter Comes (incisa tempo fa) chitarra e voce, è da brividi. Ascoltandola con le orecchie devastate da trap e reggaetton (ndr: minuscole volute), si ha l’impressione di osservare una Bentley in un parcheggio di utilitarie, o una rosa rossa che si staglia tra ortiche e radicchio. Impressionante, davvero, roba da istituire un premio Nobel per la musica e nominare Paul 5 volte. Le altre canzoni, che non nomino, sono OK, con un abuso del falsetto, ma sono gusti.

Giungendo al finale non posso esimermi da spendere due parole sulla voce. In un paio di brani fa lacrimare, sembra la voce di un ottantenne. Lo è, a ben vedere, ma in altri pezzi che ho nominato, al contrario, gli armonici e la portanza sono gli stessi che hanno cavalcato le onde radio di tutta la via lattea a cavallo degli ultimi due secoli, scaldando me e tanti, tanti altri, meglio di un microonde.

Quid iuris? Io mi sono convinto che tali sfumature decadenti a Paul piacciano, e che le lasci volutamente nelle sue tracce, anche solo per far chiacchierare chiunque non trovi di meglio da fare che criticare una divinità della musica che, per inciso, potrebbe permettersi di scomparire e godersi il suo impero alla faccia nostra, lasciandoci affogare nel mare di cantanti che non sanno cantare in cui siamo immersi ormai da anni.

Paul invece fa ancora musica (per fortuna), poi ci guarda, e ride. Perché lui, dati alla mano, è l’incarnazione del concetto stesso di non plus ultra, e anche i pochi, fisiologici detrattori che si porta a spasso come parassiti da sempre, non possono che inchinarsi a tale roboante, immarcescibile, supremazia.

Chiudo sottolineando che nell’Italico Stivale, nei giorni in cui questo articolo ha preso forma, McCartney III si attesta comodamente attorno alla decima posizione. Non commento la cosa, perché le nostre chart contano da sempre quanto un 2 di picche con briscola a bastoni. Dando uno sguardo a chi svetta da noi mentre Paul conquista la vetta delle due mecche della musica (assieme a quelle di Belgio, Germania, Olanda ecc.), non si fatica a trovare la ragione del nostro isolamento artistico.

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