Uscito direttamente su Netflix (quest’anno va così, accontentiamoci che è già tanto…), il film diretto da Ludovico Di Martino è, innanzitutto, una produzione del talentuoso Matteo Rovere; a lui dobbiamo la regia di un paio di titoli che hanno cercato di smarcarsi dalle solite, trite e stereotipate storie italiane, ovvero Veloce come il vento( 2016) e Il primo re (2019), ma anche in veste di produttore ha già dimostrato di avere le idee piuttosto chiare (la simpatica trilogia di Smetto quando voglio dell’amico Sydney Sibilia, ad esempio).

Può sembrare strano, perciò, assistere a questo La Belva, un titolo che definire derivativo sarebbe semplicistico, tanto è evidente la voglia di emulare un certo filone del Cinema americano, ovvero quello del “hai toccato la mia famiglia ed ora ti cercherò per ammazzarti brutalmente”. Vero è che in Italia le pellicole cosiddette “di genere” hanno ricominciato a veder la luce delle sale in questi ultimi tempi, dopo essere praticamente scomparse dai radar dalla fine degli anni Settanta, salvo rare eccezioni, però siamo nel 2020 e i paragoni sono tanto facili quanto inevitabili da fare. Purtroppo.

Sia chiaro che La Belva l’ho visto volentieri, ma non so se avrei detto la stessa cosa pagando i soldi del biglietto al cinema. Troppe leggerezze di scrittura, dialoghi che fanno più male delle botte ricevute e date dal protagonista e scene di combattimento così fiacche che evidenziano tutto il divario con chi le sa fare davvero (scomodiamo il Gareth Evans di The Raid o può bastare un episodio a caso della serie televisiva Daredevil?), non compensano i meriti del film, che poi sarebbero riassumibili in due sole parole: Fabrizio Gifuni.

L’attore romano ce la mette tutta per sembrare credibile e la sua pelata, unita a una folta barba, potrebbero farlo sembrare un duro senza neppure lo sforzo di dover alzare un sopracciglio; ma al regista questo non basta e decide che, se Liam Neeson alla sua età può passare per un uomo d’azione, il più giovane Gifuni non può essere certo da meno. 

Ora, non voglio fare le pulci ad un film che ha il solo scopo d’intrattenere, però se dalle parti di Hollywood le scene corpo a corpo le preparano per mesi, un motivo ci sarà ed è quello di non far risultare goffo e lento chi le esegue; il personaggio di Gifuni faceva parte dei Corpi Speciali, ma a vederlo picchiare talvolta viene il dubbio che fosse semplicemente un magazziniere o un addetto alla mensa (non come lo Steven Seagal di Trappola in alto mare, eh…), così come i cattivi che incassano gli spostamenti d’aria o afferrano forbici così lentamente che pure mia nonna sembrerebbe più letale con un ferro da maglia in pugno.

Fabrizio Gifuni, quando non mena, trasmette tutta la sofferenza da reduce provata dalla sua Belva e lo fa con il solo sguardo, in un rabbioso silenzio che rischia di farlo implodere o esplodere, ma il contorno ci ricorda che non siamo su un set fotografico e la magia si rompe non appena appare qualche figura di contorno, tipo il poliziotto di Lino Musella che ha la sola colpa di assecondare le battute di una sceneggiatura buttata un po’ via, scritta da entusiasti fan del genere che, però, si sono scordati di farla leggere a qualcuno con più esperienza di loro e questa cosa si ripercuote pure nello sbrigativo finale con il caricaturale super cattivo da “ultimo livello di un videogioco” di Andrea Pennacchi. 

Troppo accanimento? Boh, ho già ammesso di essermi anche divertito a vedere La Belva e, oltre al protagonista, qua e là alcune cose buone ci sono oltre alle intenzioni (un inseguimento, una sparatoria, una tortura…), ma se non si dicono i fatti come stanno finiremo sempre per accontentarci del “vorrei-ma-non-posso” e a livellare la qualità su una medietà che di certo non potrà far del bene al nostro Cinema, soprattutto quando ambisce a realizzare prodotti esportabili in tutto il mondo, generando inevitabili quanto imbarazzanti confronti.

Voto: 2,5/5
La Belva
Regia di Ludovico Di Martino, con Fabrizio Gifuni, Lino Musella, Andrea Pennacchi, Monica Piseddu e Emanuele Linfatti

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