Se si dovesse chiedere ad Alberto Sparapan da dove nasca il suo amore per il cinema, non saprebbe darci una risposta esaustiva, ma di sicuro saprebbe ricollegare il tutto ad un nome. «David Lynch è per me uno di quei registi il cui approccio creativo è di gran lunga più importante delle sua filmografia. Perché, al di là delle interpretazioni che la gente tenta di attribuirgli e che, secondo me, alle volte impoveriscono un po’ la sua arte, Lynch vede il cinema come una necessità. Non ricordo dove, ma sono certo di averlo sentito pronunciare più o meno queste parole: “Se al mattino scendo in cucina ed è finito il caffè, esco a comprarlo”. Che letto fra le righe a me è sempre sembrato voler dire questo: “Se hai bisogno di qualcosa, corri a prendertela”. Grazie a David Lynch ho smesso di parlare di cinema nei termini di una passione e ho cominciato ad avvertirlo come un’autentica necessità.»

La sua giovane età lo mette spesso a confronto con il mondo che lo circonda e fa scaturire in lui il bisogno di narrarlo per immagini. Un cellulare, una reflex, una vecchia videocamera: nel corso degli ultimi anni, qualsiasi strumento è stato valido per raccontare storie. Alcune di queste sono rimaste chiuse in un cassetto, altre hanno trovato la loro strada in film a basso budget. A lui e alla sua troupe fidata piace dire così: «Non siamo professionisti, ma siamo professionali».

«Non nascondo di aver filmato anche tante piccole cose delle quali un po’ mi imbarazzo – riprende Sparapan -. Ma si tratta sempre di un imbarazzo che mi fa sorridere: non c’è niente di più bello che guardarsi indietro e stupirsi di come sia stato anche solo possibile aver concepito certe cose. E se lo posso provare io, che ho poco più di vent’anni, non oso immaginare chi ha la fortuna di guardarsi indietro dopo una vita di lavoro. È a quello che punto.

C’è stato un periodo in cui ho cercato di prendermi forse fin troppo sul serio, convinto di poter cambiare il mondo tramite i miei film, ma fortunatamente quel periodo si è concluso alla svelta.

Ora fare film per me significa cambiare me stesso e il mio modo di relazionarmi col prossimo, alla costante ricerca di uno sguardo critico sul mondo e di qualche cosa di sensato da dire”.

Alberto Sparapan sul set del lungometraggio Il dio del massacro

Raccontare il mondo e le persone, però, è sia un onore che un onere. Per un ragazzo di vent’anni può diventare addirittura fonte di incertezza e di sconforto, quasi una paura di essere inadatto a quello che si sta facendo. Questi pensieri possono averlo inizialmente frenato, ma si sono poi convertiti in un trampolino di lancio, in un tentativo che, se non fosse stato fatto, avrebbe lasciato l’amaro in bocca. Il miglior modo che Sparapan riesce a trovare per descrivere questa sensazione è citare Erich Fromm, di recente consigliatogli da un amico.

«Dice Fromm: un uomo che attende di innamorarsi è un po’ come un uomo che vuole dipingere, ma che, anziché imparare l’arte, sostiene di dover aspettare l’oggetto adatto da dipingere e che solo allora tirerà fuori il suo vero talento. Il cinema, come l’amore, è un esercizio costante e se non ci affaticasse non sarebbe autentico. Credo, dunque, che il mio modo di fare film stia nel trovare una mezza via tra attesa e azione, riflessione e impulso. Non c’è una cosa giusta o sbagliata, ma è l’unione delle due che ci porta sulla strada da seguire”.

Non è ancora detto (e forse non lo sarà mai) che il giovane regista abbia trovato la strada giusta, ma di sicuro la ricerca di continuo, affidandosi soprattutto ad una squadra ormai consolidata di tecnici e di attori, professionisti e non. L’incontro di tante persone sul suo breve percorso gli ha dimostrato che fare film significa darsi all’altro nella consapevolezza che questi avrà qualcosa da dare a te.

E non è infatti un caso che Sparapan abbia sempre sentito la necessità di condividere le sue idee con altre persone, sempre alla ricerca di un consiglio e di una parola che mettesse ordine nella confusione che aveva in testa. Questo lo ha portato ad una piccola, breve e, a detta sua, “inesistente” carriera. «Il mio primo film – ma chiamarlo così mi spaventa un po’, preferisco definirlo “tentativo filmico” – risale al 2018 e si intitola Amerika, scritto insieme al mio amico Alessandro Casali con cui tuttora condivido un’attività di video-making.

Nel 2020 è arrivato Il dio del massacro, un secondo lungometraggio scritto insieme ad Alberto De Gaspari, anche attore protagonista del film. La storia è forse la più complessa che sono riuscito a scrivere, anche e soprattutto grazie al sostegno di Alberto, e narra di una compagnia di teatro amatoriale alle prese con il debutto sul palcoscenico.»

Entrambi i progetti sono stati supportati da Bando alle ciance, una realtà estesa su tutto il territorio regionale che sostiene progetti per i giovani dai 14 ai 27 anni con contributi economici, ma non solo: offre anche una grande rete di scambio, condivisione e ascolto reciproco.

Il regista si dice molto grato al bando per aver creduto in lui e avergli dato fiducia. Fiducia che è gli è stata poi data nuovamente anche negli anni a seguire e che gli hanno dato grande conforto nel triste periodo della quarantena.

La locandina di Mia, l’ultimo cortometraggio
in ordine di tempo di Alberto Sparapan.

«Il lockdown non è stato un momento di stasi. Durante quei mesi infatti è nato Mia, il mio ultimo cortometraggio, presentato in occasione del Cortocircuito Film Festival lo scorso settembre (sarà trasmesso domani, 25 novembre, durante la diretta social di Heraldo dedicata alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ndr). All’inizio guardavo al cortometraggio come ad una regressione, essendo che tutti gli altri lavori in cui mi ero cimentato sono sempre stati lungometraggi. Ma mi sbagliavo: lavorare in tempi ristretti è stato un grande esercizio e ha richiesto un lavoro sui personaggi molto complesso. A tal proposito, mi ritengo fortunato ad aver collaborato con Irene Lovato sullo script. Forte dei suoi studi di psicologia, Irene mi ha aiutato nella caratterizzazione psicologica dei personaggi e nella costruzione del mondo femminile.»

Da un mese a questa parte, Alberto Sparapan trascorre le sue giornate seduto alla sua scrivania seguendo in telematica i corsi della Civica scuola di cinema “Luchino Visconti” di Milano. «È bastato un mese per capire che tutto ciò che di più bello potevo trovare l’ho trovato proprio qui: docenti competenti e disponibili, compagni di corso che come me hanno voglia di mettersi in gioco, ma soprattutto tanta voglia apprendere. E se è vero che il cinema è un grande sogno collettivo, allora forse comincio lentamente a sentirmene parte. La strada è ancora lunga, lunghissima, e ogni giorno è una grande occasione per fare un passo in avanti.»

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