Omar Bonfante, ovvero Travel Reflexes, viaggiatore e fotografo, ci racconta le peripezie sue e della sua compagna Valeria Gennaci per documentare un interessante progetto di riciclo della plastica da parte di un gruppo di monaci buddhisti di Bangkok. «A marzo di quest’anno, – racconta Omar – quando il mondo stava chiudendo le frontiere e iniziando il lockdown per contenere la pandemia di Covid-19, ci siamo trovati in Thailandia in una situazione di stallo: l’idea era di continuare a viaggiare in Indocina e proseguire poi in India, invece a causa della pandemia siamo dovuti andare a Pai, una località nel nord della Thailandia, essendo diventato ormai impossibile varcare i confini verso i paesi limitrofi.

Abbiamo quindi scelto di spostarci a Bangkok per evitare di rimanere bloccati da un’eventuale decisione del governo thailandese di chiudere le province, sperando di riuscire ad imbarcarci su un volo per l’Italia. Mentre cercavamo di capire come tornare a casa, ho deciso di ingannare l’attesa documentandomi sulle politiche di sensibilizzazione al rispetto per l’ambiente nei diversi Paesi dell’Indocina. L’idea mi era venuta in seguito ad un episodio che mi era accaduto alcune settimane prima, mentre mi trovavo in Laos:

un giorno, mentre percorrevamo in scooter la strada attraverso la foresta durante un trasferimento da un villaggio a un altro, abbiamo imboccato un sentiero laterale e ci siamo trovati di fronte ad una scena decisamente inquietante: alcune mucche stavano tranquillamente “pascolando” in una discarica a cielo aperto, mangiando ciò che trovavano in mezzo alle montagne di immondizia.

Il proprietario svedese del bungalow nel quale alloggiavo ci disse poi che era una cosa perfettamente normale da quelle parti, motivo per cui lui non mangia carne bovina.»

Dalla discarica di plastica (in alto a sinistra, una delle tante in cui pascolano liberamente le mucche), i monaci del tempio di Wat Chat Daeng, a Bagkok, hanno creato lavoro grazie al riciclo

Dopo il Laos, Omar e Valeria arrivano in Thailandia, e proprio a Pai vedono alcune foto della zona risalenti a qualche anno prima, scoprendo che allora l’immondizia veniva gettata ovunque, mentre oggi c’è molta più attenzione al rispetto per l’ambiente e viene compiuto un lavoro di sensibilizzazione in questo senso, incentivata anche dalla presenza dei turisti.

La Thailandia, rispetto agli altri paesi dell’Indocina, è, secondo Omar, l’unica che ha messo in atto delle serie politiche di educazione sullo smaltimento dei rifiuti. Continuando le ricerche, Omar scopre che a Bangkok c’è il monastero buddhista di Wat Chak Daeng, dove i monaci producono kesa (i loro tradizionali abiti arancioni) ricavati dalle bottiglie di plastica.

Dopo un “rilassante” viaggio di 850 chilometri in pullman e una serie di peripezie alla ricerca del monastero (che in effetti possiede anche una pagina Facebook, ma solo in lingua thai), riesce finalmente a fissare un appuntamento per andare a visitarlo (il monastero non è aperto ai turisti), in una zona molto periferica della città. Con l’aiuto di Valeria che fa da interprete, riescono a incontrare un monaco che parla un po’ di inglese e spiega loro come è organizzata l’attività. «L’idea originale di creare abiti ricavati dalle bottiglie di plastica è nata a Taiwan, – spiega Omar – da monaci buddhisti che sono poi andati ad insegnare questa tecnica ad altri monasteri. Non è un’impresa facile, perchè i macchinari sono costosi e il riciclo non è molto remunerativo. Attualmente il tempio di Wat Chak Daeng è l’unico in tutto il sud-est asiatico a portare avanti questa attività di riciclo: hanno iniziato due anni fa, quando alcuni monaci sono andati a Taiwan a imparare la tecnica necessaria per utilizzare i macchinari.»

Ma come funziona il processo di trasformazione da bottiglie di plastica a vestiti? «La parte della bottiglia che viene utilizzata è solo quella centrale, quindi vengono eliminati il collo, il fondo e l’etichetta – riprende Omar -. Per i kesa si utilizzano solo bottiglie trasparenti da 1,5 litri, mentre per altri capi d’abbigliamento si possono recuperare anche quelle colorate. Talvolta si aggiunge anche una percentuale di tessuti di altro tipo, per migliorare la traspirabilità. Come prima cosa, le parti utilizzabili delle bottiglie vengono schiacciate da una pressa e successivamente tritate e sminuzzate attraverso un altro macchinario che le riduce in minuscoli cristalli.

Il ciclo di produzione del filato a partire dalla plastica

A quel punto il materiale risultante viene portato ad alte temperature, in modo da fondere e venire trasformato in fili che vengono avvolti intorno ad una spoletta. Se ne ottiene quindi un normale tessuto che viene assemblato con le macchine da cucire. Per creare un kesa sono necessarie 65 bottiglie e ogni mese nel monastero ne vengono prodotti circa duecento.»

Il monastero si è organizzato in molto molto efficiente: dai quartieri limitrofi riceve ogni mese circa 5 tonnellate di bottiglie ed altri rifiuti di plastica, che vengono portati dagli abitanti della zona oppure prelevati direttamente dai monaci. Le persone coinvolte nel processo di manifattura degli abiti sono 35, prevalentemente con qualche disabilità.

Producono non solo kesa, ma anche altri tipi di vestiti, scarpe, cappelli ed ora anche mascherine da vendere ai turisti e ai negozi della zona, mentre nel monastero possono essere acquistati facendo un’offerta libera.

Ma l’inventiva dei monaci in tema di riciclo non si ferma all’abbigliamento: sono in grado infatti di ricavare mattoni per prefabbricati dai brik dei succhi di frutta e fertilizzanti dai rifiuti organici. Molti dei prodotti vengono inoltre donati alle famiglie bisognose, dando un grande aiuto alla comunità e fornendo una formazione e possibilità di impiego a persone che altrimenti sarebbero in difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. I monaci stanno cercando di diffondere questo modello virtuoso attirando l’attenzione di potenziali investitori, soprattutto stranieri, e facendo conoscere la loro realtà tramite il passaparola.

Insomma, la strada da percorrere nell’ambito dell’educazione all’ambiente e della gestione dei rifiuti è ancora lunga, e questi intraprendenti monaci devono affrontare grandi difficoltà, soprattutto economiche, per portare avanti un’attività che offre ben pochi margini di guadagno. Tuttavia rappresentano un coraggioso esempio di come si possa creare un beneficio sia per l’ambiente che per la comunità, e la speranza è che il loro lavoro possa ispirare altre realtà ad adottare il loro modello e trovare investitori che vogliano dare loro sostegno.

(Le foto a corredo dell’articolo sono tutte di Omar Bonfante)

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