Domenica mattina, via Sansovino. Gli alberi cominciano a ingiallire, le foglie a cadere sui parabrezza delle auto in sosta. Qualche passante, intirizzito dall’umidità dell’aria, porta al guinzaglio il proprio cane per i primi bisogni mattutini. Pochi altri passeggiano verso l’edicola di Piazzale Olimpia. Nel frattempo, in molte case veronesi ci si appresta ad accogliere il calo delle temperature con il primo bollito e pearà della stagione e il quartiere Stadio si appresta a vivere un nuovo ciclo. L’anno solare, tra i circa quindicimila residenti della zona, non è il solo modo per scandire il tempo.

Più abituale è seguire le fasi del campionato di calcio. Quando, dopo la pausa estiva, ricominciano le partite di serie A e B, significa che un nuovo anno sta per iniziare e ogni famiglia ritorna alle rituali abitudini settimanali. Mercato il sabato mattina, aperitivo in piazzale Olimpia – se si è tifosi –, panino dell’onto e partita nel primo pomeriggio. Non che ogni residente presenzi alle gare da dentro allo Stadio, ma in ogni caso tutti cadenzano il tempo con l’appuntamento calcistico. Rimane un’abitudine, nata dagli anni Ottanta, quelli dello scudetto dell’Hellas e di una partecipazione agli eventi calcistici del tutto straordinaria.

In verità, il calcio già da diverse stagioni ha infranto il rituale obbligando tutti ad una più variabile organizzazione del week end, tra anticipi, posticipi, gare ad ora di pranzo. Negli ultimi tempi però ci si è messo anche il Covid-19 a sconvolgere l’abitato, per sua genesi – e nome – orbitante attorno al proprio impianto sportivo. Il lockdown, le domeniche senza calcio e poi a porte chiuse o semichiuse, hanno rivoluzionato presente e futuro di molti cittadini residenti in zona, ma soprattutto sconvolto le prospettive commerciali di gran parte delle attività.

A febbraio, quando ancora l’Italia osservava con un certo distacco l’epidemia, diversi negozi con sede in prossimità dello Stadio avevano già chiuso. Si avvertiva che qualcosa non stava andando per il verso giusto, con la comunità cinese che in pochi giorni aveva abbassato le serrande, per lo più dopo aver smesso di mandare i figli a scuola e ponendosi in isolamento preventivo. Col senno di poi, la loro prudenza, dettata dalle informazioni che ricevevano dalla Cina, avrebbe potuto allarmare più di qualcuno. Il successivo e inevitabile lockdown di marzo e aprile ha stravolto l’abituale frenesia del quartiere, per molti solo luogo di passaggio per l’ingresso in tangenziale, ma per tanti altri una zona da vivere a tutto tondo.

Il quartiere Stadio può essere infatti quasi considerato un vero paese a sé stante, grazie alla presenza di una completezza di servizi non sempre riscontrabile nelle zone prossime al centro storico. La farmacia comunale è da sempre abituale luogo di ritrovo della popolazione over 70, il parco giochi limitrofo un crocevia di famigliole di decine di etnie diverse, a conferma che la maggior parte degli spazi pubblici delle città moderne è luogo d’incontro e non di divisione. E poi il supermercato Migross, meta di acquisti anche domenicale e di svago per molti anziani, o l’ufficio postale, fuori dal quale la coda, in certi giorni, supera le dieci unità. Per non parlare della lavasecco, vicino alla quale è solitamente complesso parcheggiare anche negli spazi riservati al carico e scarico.

Durante il lockdown nulla di tutto questo è avvenuto. Come in ogni altra zona della città, silenzio e solitudine si sono impossessate del quartiere. Rimanevano in attività le poche imprese essenziali e null’altro.

Le zone monumentali delle città, avvolte dal silenzio e in assenza di persone, si manifestano in tutto il loro splendore architettonico, richiamano suggestioni storiche e stimolano il gusto estetico. Una zona come il quartiere Stadio, per larga parte edificata con palazzoni stile anni Sessanta, se priva di vita, diventa viceversa squallida, richiamando una sensazione di desolazione tipica dei non luoghi. Così è stato il quartiere tra marzo e aprile. Strade deserte, negozi chiusi, appartamenti che all’improvviso paradossalmente sono sembrati più vuoti di prima, se non per qualche arcobaleno ben in vista sui balconi.

Poi, all’improvviso tutto si è risvegliato. A maggio con prudenza, poi quasi con furore, a giugno. Le famiglie, barricate tra le mura domestiche per mesi, hanno cominciato a tornare in strada, a vivere Piazzale Olimpia come forse non avevano mai vissuto, complice il poco traffico e l’assenza di malintenzionati e bighelloni. Si è avuta in quel momento, forse per la prima volta dallo sviluppo del quartiere, la rappresentazione della vera composizione dei residenti. Diversi anziani, ma soprattutto famiglie, tanti bambini. Rumeni, srilankesi, bengalesi, italiani. Lo Stadio è diventato il fulcro del loro brulicare, del loro ritornare a condurre una vita senza limitazioni.

Piazzale Olimpia è diventato vera e propria agorà, luogo d’incontro per tutti, non più solo del tifo organizzato. Era una fase in cui non c’erano obblighi scolastici per i giovani, che potevano dunque godere dell’intera giornata per giocare in compagnia, per gli adulti invece, tra smartworking e cassa integrazione, vi era la difficoltà di dover organizzare giorno per giorno il graduale ritorno alla normalità. In quei momenti, parlando con le persone, si comprendeva in maniera tangibile l’estrema precarietà di questa fase successiva al lockdown, dominata da incertezze e speranze.

C’era desiderio di confronto, di comprendere come gli altri avevano vissuto gli ultimi due mesi, di vivere una nuova socialità e nuove relazioni. Il quartiere Stadio ha accolto e favorito questa rinascita grazie ai suoi spazi, alle aree verdi, alle panchine, ai tavolini dei bar, dimostrando di poter essere un vero e proprio paese in città, non solo sobborgo ad uso dormitorio ospitante manifestazioni sportive e concerti.

L’estate poi è sembrata portarsi via il virus e il quartiere in poco tempo è tornato alle proprie abitudini. Macchine di passaggio, corse d’autobus, negozi tutti aperti e in generale una diffusa operosità, tornata a manifestarsi come nulla fosse successo, in città, come nel quartiere. Non sempre però.

Le domeniche allo Stadio ancora non sono tornate come un tempo. La parziale o totale chiusura degli impianti sportivi al pubblico impedisce tutt’ora al rione di ritornare alla condizione ante Covid-19, cambiando drammaticamente le prospettive commerciali di chi, attorno allo Stadio Bentegodi, ha investito. Ci se ne rende conto proprio camminando al mattino nel week end. Lo si nota con evidenza. Tra i cumuli di foglie raccolte a bordo strada da acqua, vento e dal passaggio delle auto, tra serrande ancora abbassate e qualche bar che apre più per speranza che per convinzione di far giornata, la desolazione rimane quella tipica del lockdown.

Sono sparite le famiglie che a maggio invadevano le strade del quartiere, ma non sono tornati i tifosi, solo qualche sfaccendato o qualche incallito nostalgico avvia il giro dei bianchetti di buon’ora. Tra un calice e una sigaretta, montano sconforto, frustrazione e rabbia per una vita che non è più quella di prima, né per l’avventore, né per l’esercente. In attesa di tempi migliori, si sprecano commenti sui vari Dpcm, con l’unico effetto di alimentare e montare ancora di più ogni sentimento negativo. Si tergiversa dunque in un limbo, nella per ora vana attesa di tornare al quartiere che fu fino allo scorso inverno.

Appare evidente però che il perdurare dell’epidemia dovrebbe viceversa suggerire una diversa qualificazione del quartiere che prescinda dallo Stadio e che valorizzi le potenzialità già presenti sul territorio.