È, questa del 2020, una primavera anomala, qui in Sudafrica. La fioritura tardo-invernale del Western Cape, uno degli eventi naturali più scenografici della nazione, è un dono fugace, una festa mobile che apre le danze alla fine di agosto, a poche settimane dall’arrivo della primavera astronomica, e va a morire, dopo una decina di giorni, con il silenzio assoluto che la natura sa imporre sulla fine di ogni cosa.

Si estende, verso Nord, fino alla Namibia, rivitalizzando il colore ocra del Great Karoo e le sue valli infinite, e trasforma la terra in un tappeto multicolore che abbraccia il deserto, le valli montane e la sabbia costiera. Le estensioni, a perdita d’occhio, di margherite grandi, colorate, diventano, per chi percorre queste strade solitarie, un’esperienza psichedelica straniante. Quest’anno, i fiori resistono ad oltranza, un tentativo di vita prolungata oltre le sacre norme botaniche, al di là di ogni ragionevole attesa. Un paesaggio oltre il paesaggio, oltre la visione che qui, ogni giorno, ci vizia e ci trasporta in una dimensione surreale, metafisica.

Il lockdown è, a tutt’oggi, al suo livello minimo, con poche norme di base cui attenersi – incluso il coprifuoco notturno, il divieto di assembramento, il distanziamento sociale  – e massima attenzione all’evoluzione dei contagi. Qui, il distanziamento sociale è rispettato ogni giorno ma non è mai diventato una virtù morale, un confine identitario di separazione. Nessuna strumentalizzazione politica ha caratterizzato la gestione di questa emergenza, né la legge è stata percepita come disposizione autoritaria.

Sono stati chiesti molti sacrifici, e mantenute molte promesse; il malcontento, talvolta, si è espresso con chiarezza, ed è stato ascoltato dalle istituzioni. Il virus, protagonista assoluto di questo tempo, vive a livello globale, infetta, si nasconde e riappare oltre le mascherine: ne siamo consci, così è descritto e narrato dagli esperti mondiali.

Poi, per un attimo, esso, il virus, questo dannato artifizio biologico, scompare di colpo: stiamo ammirando le valli fiorite, dove il colore e il cielo si scontrano senza farsi male, contaminandosi l’un l’altro come in un caleidoscopio in rotazione. È, questa immanenza che supera il tempo delle stagioni, un urlo della vita mortale, dei colori che sfioriscono in fretta, della vita che non si spaventa della vita e della morte. Un’esistenza dove il confine è abbattuto e non esistono distanziamenti post-umani, cinematografici, dove non si muore per paura della vita e della solitudine.

Giungono, costanti, notizie italiane di decreti che rincorrono emergenze e consensi, dissertazioni che confondono il consenso con l’emergenza che è sì virale, clinica, ma diviene esistenziale, relazionale, sociale ed economica, con una metamorfosi lenta, irreversibile e letale.

Non resisteranno a lungo, queste margherite australi già vissute un tempo quadruplo rispetto ai loro diritti biologici, naturali. Di esse, rimarrà il desiderio di una voce urlata che ci renda capaci di superare le cadenze quotidiane mediatiche, implacabili ai nostri occhi deboli e vulnerabili. Resterà la voglia di muoverci nel brulichio, di camminare e scontrarci. Di immergerci nella natura, mai benigna, cui apparteniamo, e di immaginarci figli suoi. Di superare l’analogia tra i messaggi, le previsioni, e il nostro futuro. 


Per leggere gli altri resoconti di Corrado Passi dal Sudafrica, ecco i titoli:

Mandela Day, la luce mai spenta di un Paese

La suspence del Sudafrica, sulla soglia della fase tre

Cape Town, maggio 2020