Era il giugno scorso, quando il sindaco Federico Sboarina dichiarava che l’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus aveva «scombussolato il mondo, rivoluzionato il trasporto pubblico locale, imponendo il distanziamento sociale e riducendo la capienza dei mezzi». Si erano così creati «un ritardo dei cantieri e una crisi economica colpendo anche le aziende coinvolte nella filovia». Preso atto di tale situazione, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti competente per l’opera, l’amministrazione veronese aveva iniziato un confronto con l’ATI, affidataria dell’esecuzione dell’intervento, e il ministero stesso, al fine di «ammodernare il progetto per il trasporto pubblico di massa, a fronte di scenari completamente mutati.»

Come sappiamo, il progetto della filovia prevede mezzi a guida vincolata, alimentati da una rete aerea. Dalle dichiarazioni dell’amministrazione, l’ipotesi – perché di questo allo stato attuale si parla – è quella di sostituire i mezzi a guida vincolata con dei mezzi a batteria ricaricabile.

Fin qui tutto bene (o quasi), se non fosse per il fatto che i contorni della vicenda sono assai sfocati. Pare necessario mettere un po’ in ordine le cose e porre alcune domande. In primo luogo: perché i lavori della filovia si sono fermati? Per le difficoltà economiche delle aziende che compongono l’associazione temporanea di imprese che deve realizzare l’opera? Oppure perché il Coronavirus ha imposto la necessità di diminuire il numero di utenti trasportati? Quest’ultimo motivo pare decisamente pretestuoso, dal momento che come sappiamo i mezzi pubblici sono ora autorizzati a viaggiare all’80% della capienza. Senza contare il fatto che un intervento di lungo termine come la realizzazione di un mezzo di trasporto pubblico di massa, per di più già finanziato, non dovrebbe essere condizionato da un’emergenza sanitaria che per quanto grave possa essere, prima o poi verrà superata. Sempre che non si parta dal presupposto che il Covid-19 sia destinato a cronicizzarsi e a rimanere per sempre con noi. Cosa che, è opportuno dirlo, non è successa con nessuna pandemia nella storia.

Inoltre, dopo le dichiarazioni che hanno tirato in ballo la riduzione della capienza dei mezzi causata dalla pandemia per giustificare la necessità di cambiare l’opera, non è chiaro che differenza faccia avere mezzi che viaggiano vincolati a una rete di cavi aerei oppure alimentati a batterie. Forse l’amministrazione dovrebbe investire un poco del suo tempo per spiegarlo all’opinione pubblica cittadina, possibilmente con argomenti convincenti.

Un altro dubbio piuttosto serio deriva dalla modalità con cui si sono sospesi i lavori da parte dell’amministrazione, perché di fatto quello è stato l’effetto delle dichiarazioni del sindaco. Un’opera pubblica la cui esecuzione è regolata dal “codice degli appalti” non si modifica con una conferenza stampa in streaming. Specie nel caso in cui si preveda che il progetto debba cambiare radicalmente. La legge stabilisce delle procedure molto precise nel caso di varianti in corso d’opera, che non possono essere improvvisate a discrezione.

Foto di Stefano Magrella

Tale legge si basa sul principio giuridico dell’immodificabilità dell’oggetto contrattuale. Questo principio è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria e stabilisce quali siano le modifiche ammissibili e non, definendo queste ultime come quelle che alterano la natura sostanziale dell’appalto. Tali modifiche non sono ammesse in quanto stravolgono l’oggetto del contratto e la sua natura. Che succede allora se per circostanze imprevedibili sopraggiunge la necessità di eseguire modifiche sostanziali a un progetto già appaltato, che ne alterino le caratteristiche sostanziali?

La Corte di Giustizia europea, nella sentenza del 13 aprile 2010 nella causa C-91/08, si è così espressa: «Al fine di assicurare la trasparenza delle procedure e la parità di trattamento degli offerenti, le modifiche sostanziali […] costituiscono una nuova aggiudicazione di appalto, quando presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle del contratto […] iniziale e siano, di conseguenza, atte a dimostrare la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali di tale appalto. La modifica di un contratto […] in corso di validità può ritenersi sostanziale qualora introduca condizioni che, se fossero state previste nella procedura di aggiudicazione originaria, avrebbero consentito l’ammissione di offerenti diversi rispetto a quelli originariamente ammessi o avrebbero consentito di accettare un’offerta diversa rispetto a quella originariamente accettata».

Se ne deduce che, qualora le modifiche richieste siano tali da alterare radicalmente l’oggetto del contratto d’appalto, le opere vanno riaggiudicate con una nuova gara. Del resto, se voi fate un contratto con un fornitore per avere delle pere, non potete pensare di pretendere che vi siano consegnate delle banane…

Esattamente questa è la situazione che si è creata nel caso della filovia, nel momento in cui l’amministrazione ha sospeso i lavori manifestando l’intenzione di modificarne una caratteristica essenziale come il sistema di alimentazione dei mezzi. Intenzione alla quale, è bene evidenziarlo, a oggi non ha fatto seguito la redazione di un nuovo progetto da parte di AMT che consenta di definire l’importo economico delle modifiche richieste. La sospensione dei lavori unita alla mancanza di indicazioni su come questi debbano proseguire pone l’ATI in quella situazione che nel frasario dei lavori pubblici viene definita “fermo cantiere”, che qualora venisse considerato come disposto in maniera illegittima, esporrebbe AMT al rischio di dover versare corposi risarcimenti all’ATI per i danni e mancati introiti che ne sono derivati.

La situazione generata dalla mancanza di chiarezza su come vadano proseguiti i lavori, dallo stato di sofferenza finanziaria di alcune ditte facenti parte dell’ATI, unita al disagio causato dai molti cantieri ancora aperti per la città e che nonostante le sollecitazioni dell’amministrazione a oggi sono ancora in stato di abbandono, in questi giorni è arrivata al punto di rottura con la richiesta di risoluzione del contratto da parte di AMT.

La prospettiva è quella di un duro contenzioso legale con le imprese facenti parte dell’ATI, le quali, dal canto loro, potrebbero avanzare ragioni parecchio solide, prima fra tutte la volontà espressa dall’amministrazione appaltante di modificare radicalmente il progetto.

Situazione questa che al di là delle dichiarazioni di rito, espone AMT e a cascata il Comune di Verona che ne è socio unico, al concreto rischio di un duro contenzioso legale con l’ATI dall’esito per nulla scontato.

A tutte queste incertezze ne va aggiunta una ulteriore. L’opera del costo complessivo di 143 milioni di euro è finanziata per il 60% (circa 86 milioni di euro) dallo Stato, come si legge sulla Delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione economica n.38 del 26/4/2018. Nel dicembre scorso l’avvocato Michele Croce, l’ex presidente di AGSM defenestrato da Sboarina, denunciò pubblicamente il fatto che di quei 86 milioni di euro a Verona non era ancora giunto in centesimo, a suo dire a causa di diverse irregolarità amministrative, tra le quali «documentazione contabile incompleta» che rendeva impossibile il controllo da parte del ministero. Circostanza che qualora fosse verificata, sarebbe piuttosto grave, date le regole ferree che sovraintendo alla tenuta della contabilità dei lavori pubblici. La faccenda, come un fiume carsico, è finita sottotraccia e a oggi non è dato sapere se quei finanziamenti siano stati sbloccati.

In ogni caso, ora nella vicenda del filobus c’è un’unica certezza, ovverosia che non vi sono certezze.