Accusato di reati di opinione e attualmente detenuto nel complesso carcerario di Tora al Cairo, Patrick George Michel Zaky Suleiman è in carcere dalla notte tra il 7 e l’8 febbraio 2020, quando viene arrestato all’aeroporto del Cairo dove arrivava da Bologna per far visita alla sua famiglia a Mansoura, nel nord del Paese. Al momento dell’arresto, Zaky è indagato dallo stato egiziano per cinque diversi capi d’accusa: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Ma lui non ne sa assolutamente nulla.

Patrick Zaky

Patrick ha 28 anni, è egiziano e appartiene alla comunità cristiana copta. Si trovava a Bologna per frequentare un master in studi di genere e collaborava come ricercatore con l’organizzazione per i diritti umani EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights), think tank indipendente fondato nel 2002 con sede al Cairo. Difendeva i diritti delle persone LGBT e ne denunciava le violazioni. Era inoltre il coordinatore della campagna per supportare le comunità cristiane cacciate dal nord del Sinai e sfollate nella città di Ismilia a causa dell’avanzata dello Stato islamico: tanto basta nello stato nordafricano per rischiare l’ergastolo, che in Egitto è automaticamente commutato in 25 anni di carcere. Da quel 7 febbraio, Zaky ha cambiato 3 patrie galere e si è visto prorogare la detenzione di 15 giorni in 15 giorni per ben 11 volte, finché lo scorso 13 luglio il Tribunale egiziano ha deciso per un prolungamento della sua custodia cautelare di 45 giorni. In tutto questo, Patrick non vede il pm dal 7 marzo. «Avevamo veramente sperato in un esito diverso, ma la notizia che arriva dal Cairo è ulteriormente choccante», commenta il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury. «Una decisione inumana, arbitraria che consegna Patrick alla prigione di Tora per un tempo lungo nel quale le autorità egiziane immaginano che noi dimenticheremo la sua sorte. Sbagliano, questo è certo.»

Giulio Regeni

Amnesty International Italia ha seguito da subito il caso di Patrick anche in virtù del tragico esito della vicenda di Giulio Regeni, il ricercatore italiano assassinato nel 2016 al Cairo dopo essere stato sequestrato e torturato per 9 giorni.

Secondo i suoi legali anche Patrick Zaky sarebbe stato bendato, picchiato, torturato con scosse elettriche e minacciato di stupro. I suoi contatti con l’esterno ridotti ad un minimo necessario stabilito ovviamente dai giudici del presidente al-Sisi. Come nel caso Regeni, anche per Zaky intervengono da subito i servizi di intelligence. E come con Giulio, sui social egiziani parte immediata e implacabile la campagna denigratoria contro Patrick, accusato di essere omosessuale. Ma scatta anche la mobilitazione internazionale.

«Patrick dava fastidio perché raccoglieva dati e informazioni sulle violazioni dei diritti umani in Egitto e le diffondeva all’esterno, proprio come faceva Giulio Regeni», commenta Paolo De Stefani, professore di International law of Human rights (Diritto internazionale dei diritti umani) all’Università di Padova. «L’Egitto invece vuole presentarsi alla comunità internazionale come un Paese moderato, il gigante buono che fa da paciere tra Israele e Palestina, ma la verità è che la repressione interna è molto forte. Ecco perché queste persone diventano estremamente scomode.» La dittatura di al-Sisi a quel punto accusa l’Europa, che chiede il rilascio del ricercatore, di ingerenze negli affari interni del paese. Nega le torture. Veicola attraverso i tg nazionali l’immagine scientemente strumentalizzata del giovane egiziano che sceglie l’Europa per la propria formazione e diventa automaticamente un pericolo per la morale pubblica in Egitto.

Il Presidente egiziano al-Sisi

Allo stesso tempo, il Presidente Generale al-Sisi si pone come partner dei paesi europei nella lotta al terrorismo. In Libia sta con il generale Haftar. Fa affari d’oro con l’Europa, Italia in testa, nei settori difesa ed energia. Nel 2015 ENI scopre in acque egiziane il giacimento di Zohr, la più grande riserva di gas naturale del Mediterraneo. Ma è anche lo stato repressivo che, con le nuove norme antiterrorismo, perfeziona la macchina del controllo e potenzia il ruolo dei servizi e della Procura suprema per la sicurezza, che secondo Amnesty International ha ordinato negli ultimi anni migliaia di sparizioni forzate e detenzioni politiche.

Carceri egiziane

Nell’Egitto di al-Sisi si contano infatti migliaia di “desaparecidos” e più della metà dei detenuti nelle carceri si trova lì per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire in pochi anni 19 nuove strutture carcerarie. Un conteggio ufficiale non è stato fatto, ma attivisti per i diritti umani egiziani, con la garanzia dell’anonimato per non fare una brutta fine, hanno dichiarato ai colleghi di Globalist che si tratterebbe di non meno di 43.000 persone. Per comprendere l’enormità di queste cifre, basti pensare che tra il 1976 e il 1983 in Argentina, sotto il regime della Giunta militare di Jorge Rafael Videla, sono scomparsi 30.000 dissidenti o sospettati tali, dei quali 9.000 accertati secondo i rapporti ufficiali della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas (Conadep) su 40.000 vittime totali.

Videla (al centro) e la sua “Junta”

Uno Stato di polizia tra i più brutali al mondo dunque, che non risparmia neanche i più indifesi tra gli indifesi: i bambini. «Ci sono bambini che descrivono di essere stati vittime di ‘”waterboarding” e di scariche elettriche sulla lingua e sui genitali, senza alcuna conseguenza giuridica per le forze di sicurezza egiziane», spiega Bill Van Esveld, responsabile del settore diritti dei bambini di Human Rights Watch (HRW). In un recente rapporto di 43 pagine, HRW sostiene di aver documentato abusi contro 20 ragazzi di età compresa tra 12 e 17 anni al momento dell’arresto. Quindici di loro hanno dichiarato di essere stati torturati in detenzione preventiva, di solito durante un interrogatorio tenuto mentre erano in isolamento. Sette bambini hanno riferito che gli agenti di sicurezza li hanno torturati con l’elettricità, incluso il taser. Patrick Zaky indagava il lato oscuro del suo paese, ed è questo il solo ed unico motivo per il quale oggi si trova nello stesso carcere in Egitto dove proprio ieri è morto per patologie legate al Covid-19 il giornalista Mohamed Mounir, arrestato il 15 giugno dopo aver partecipato a un talk-show su al-Jazeera in cui aveva assunto delle posizioni antireligiose che non sono piaciute alle autorità.

Mohamed Mounir, il giornalista vittima del regime egiziano

Di fronte a tutto questo, l’Europa dei diritti umani non può più permettersi di abbassare gli occhi per poter continuare ad intrattenere rapporti economici con un Paese nel quale la violazione di questi diritti è sistematicamente attuata dal sistema penale e giudiziario interni. Quello che è stato fatto finora dall’Italia e dall’Europa evidentemente non è sufficiente, nel momento in cui l’Egitto mostra i muscoli aumentando ancora la detenzione preventiva di un ragazzo di 28 anni che faceva solo il suo lavoro. Patrick Zaky ha scelto di vivere e studiare in Italia perché credeva fermamente che solo in Europa avrebbe potuto essere libero di conoscere, esprimersi, in una parola “vivere”. E oggi qualcuno nelle istituzioni italiane e europee dovrebbe trovare il coraggio di dire ai tanti Patrick Zaky che quella libertà, per la quale un intero continente ha sognato e lottato, rischia di finire schiacciata sotto il peso di preziosi giacimenti di gas e commesse militari multimilionarie.