«Le opportunità per eccellere uno deve crearsele da solo. Non aspettate di ricevere il permesso di fare un film. Giratelo e basta.» Brando Benetton ha 26 anni, ma le idee chiarissime. Aspirante regista e sceneggiatore, ha studiato cinema al college di Ithaca, New York, e ora sta proseguendo gli studi a Los Angeles. Nel frattempo, però, si è già costruito una carriera come autore di cortometraggi, a partire dal suo esordio Nightfire, vera e propria “tesi di laurea” girata a Verona nel 2014 con un cast che includeva Dylan Baker e Francesco Pannofino.

A più di quattro anni da quell’esperienza, nel frattempo Brando ha diretto un altro corto e si prepara a esordire nel lungo. Spinto da un bisogno di esprimersi trascinante. «A New York, a diciassette anni, mi accampavo sui set a osservare in silenzio i punti macchina, i ritmi della troupe. Non me ne rendevo conto, ma era la mia prima vera scuola di cinema.» Ne abbiamo parlato con lui in un’intervista in cui ci confessa sogni e aspirazioni a cuore aperto.

Brando Benetton (in primo piano) mentre gira

Parlaci un po’ della tua passione per il cinema: quando è nata e quando hai capito che sarebbe anche stato il tuo lavoro?

«Sono cresciuto da piccolo senza una vera televisione a canali (per fortuna!), e il cinema in cassetta è stata la mia prima introduzione al concetto di “intrattenimento a casa”. Se vogliamo tuffarci da subito nell’autoanalisi, penso di aver percepito una tale emozione da bambino guardando film come Indiana Jones e l’ultima crociata che ho intrapreso un lungo percorso nel tentativo di replicare e fornire le stesse emozioni a un nuovo pubblico. La parte più appassionante del fare cinema, per me, è tutto quello che il pubblico non vede. Come logistica e organizzazione possono essere trasformati in grandi opportunità creative. O incubi. È anche un mestiere di costante problem solving

Sono passati ormai più di quattro anni da Nightfire, il film che hai girato a Verona. Puoi parlarci della genesi del progetto?

«Come studente universitario sognavo di poter presentare un progetto che io stesso, come spettatore, avrei voluto vedere tra i film di tesi. Un film che ci potesse spingere a prenderci seriamente. Siamo partiti da una troupe di 25 studenti che tentavano di girare un film d’azione di un’ora in appena 12 giorni, che a pensarci adesso era folle. Ma rimane ad oggi una delle mie più incredibili esperienze cinematografiche, per tutto quello che abbiamo sofferto e per il girato con cui siamo tornati a scuola alcune settimane dopo. Il mio nome è saltato fuori molte volte a Verona, ma ci tengo a sottolineare che è stato un lavoro di squadra.»

Il film sta girando abbastanza e ha ottenuto anche una certa visibilità, se non sbaglio. Ci puoi parlare un po’ di questo?

«Anche in questo caso sono stato fortunato. A un anno dalla fine della lavorazione, una società di distribuzione americana mi ha chiamato dal nulla chiedendo di comprare il film dopo aver visto un trailer su YouTube. È stato un promemoria di quanto sia importante saper riconoscere e spingere il “genere” cinematografico di un proprio progetto: dialogando con i distributori ci tenevo a capire quali elementi del film (dalla presenza di Dylan Baker al panorama veronese in cui la storia è ambientata) aiutavano a venderlo, e in quali territori nello specifico. Siamo spinti dal concetto di raccontare storie, ma dobbiamo anche ricordarci che questo è un business. Dopo essere stato acquisito da Amazon per il catalogo Prime, ora il film dovrebbe uscire anche al cinema in America. Considerando che il progetto è partito come cortometraggio prodotto interamente da studenti, direi che non ci è andata male.»

Girare un action per le strade di Verona è una scelta abbastanza inusuale. Come l’hanno presa i docenti e i tuoi compagni di college?

«L’università è stata infinitamente coraggiosa a trattarci da adulti, lasciandoci una libertà creativa che avevo sottovalutato all’epoca. Verona per noi è casa, ma per il pubblico americano è un sogno. C’è un riscontro immediatamente “cinematografico” in luoghi come Piazza Erbe, Corso Cavour o Castelvecchio. Il regista James Wan dice spesso che, così come un ottimo casting è meta del lavoro di regia, ottime location sono metà della scenografia. Non potevamo permetterci uno scenografo, e quindi selezionavo location dove bastava puntare la macchina da presa. Una versione di Hollywood a costo zero.»

Tu hai anche un podcast, Soundstage Access, dedicato a interviste con autori e tecnici del cinema. Ce ne puoi parlare?

«Avendo la fortuna di vivere a Los Angeles, ho preso la palla al balzo e ho iniziato a chiamare agenzie e publicist di grandissimi direttori della fotografia, sceneggiatori e registi, chiedendo di poterli intervistare. Piano piano, per ogni artista che ci sbatteva il telefono in faccia, ce n’era uno che ci invitava a casa sua la domenica mattina per dialogare davanti al microfono e condividere una conversazione sul suo processo creativo. Con James Vanderbilt, sceneggiatore di Zodiac (tra i miei film preferiti in assoluto) abbiamo parlato della collaborazione con David Fincher e del lavoro meticoloso infuso nella costruzione di un copione come The Amazing Spider-Man. Con il sound designer di Jurassic Park, Gary Rydstrom, abbiamo parlato parecchio del suo dialogo creativo con Steven Spielberg e dello sbarco in Normandia di Salvate il Soldato Ryan. Proprio la settimana scorsa sono andato a casa di Jan de Bont, regista olandese di Speed e Twister, che a 77 anni pareva sparito dal settore, eppure è ancora qui. Trovo davvero speciale e istruttivo registrare queste conversazioni e poterle condividere con tutti.»

Quali progetti hai attualmente in lavorazione?

«Ho diversi progetti che sto portando avanti e che sono in stadi diversi. Trovo che il parlarne troppo porterebbe iella, ma posso dirvi che sono tutti e tre lungometraggi di generi diverso tra loro. Sviluppare progetti che variano di atmosfera e dimensioni ci permette di esplorare lati diversi delle nostre emozioni. E capita spesso che un produttore abbia simpatia per te, ma il primo progetto che gli presenti non sia interessante. E allora presenti il secondo. E il terzo. E magari è solo mentre stai uscendo dalla stanza disperato che ti chiedono se hai una quarta idea, e finisce per essere proprio quella che finanziano. È un’industria veramente strana, a volte.»

Vivendo a Los Angeles e studiando cinema, avrai certamente incontrato diverse personalità del mondo del cinema americano (anche per via del tuo podcast). Qual è stato l’incontro che ti ha più emozionato e ispirato?

«Novembre 2016. Ero a visitare una mostra di oggetti e quadri della collezione privata di Guillermo del Toro. Una raccolta talmente varia e creativamente raffinata da richiedere una seconda visita. Ed è proprio durante questa seconda visita che compare dal nulla del Toro e, con un microfono e cassa-audio portatile (come le guide di turisti con bandierina che vedi passare a Venezia!), si mette a fornire un tour privato per i 40 fortunati presenti al momento (incluso me). In meno di un’ora penso di aver preso 11-12 pagine di appunti, capendo veramente non solo quanto colto sia lui come uomo, ma come sia importante la sua abilità di trasmettere una conoscenza e un amore per l’arte ben oltre il cinema, dai lavori letterari di Mary Shelley ai dipinti di inizio Ottocento di Caspar David Friedrich. L’ispirazione può davvero provenire da ovunque.
E poi direi che non è nemmeno male quando vai al cinema il venerdì sera e ti trovi Quentin Tarantino con moglie in una saletta da 75 posti, e sorridi sentendolo ridere ad alta voce durante il film. Christopher Nolan è un altro che ama andare all’Arclight Hollywood sulla Sunset. Maglietta e pantaloncini. Da solo in coda davanti a te a prendere il biglietto. Ma è un cinema talmente “casual” che nessuno, me incluso, si avvicina per parlargli. Hanno diritto a essere lasciati in pace se non hai un particolare spunto creativo da condividere.»

Hai maturato ormai una certa esperienza. Hai dei consigli da dare a chi, come te, vuole intraprendere studi cinematografici o una carriera nel mondo del cinema?

«Le opportunità per eccellere uno deve crearsele da solo. Cito Christopher McQuarrie perché mi ha veramente insegnato molto: “Non aspettate di ricevere il permesso di fare un film. Giratelo e basta”. Imparare a scrivere, produrre, girare, e montare un film è la scuola di cinema migliore. Non tutti i film hanno bisogno di esplosioni, robot o dinosauri per riscuotere successo. Basta raccontare una storia che sia emotivamente legata alla vostra esperienza. Grandi film partono con un grande copione. E qualsiasi cosa succeda, abbiate sempre, sempre un piano di riserva.»