Non si placa negli Stati Uniti l’ondata di proteste scaturita dall’uccisione di George Floyd; dopo l’insorgere prevedibile della comunità nera, pian piano si sono aggiunte alla protesta anche altre minoranze e nuovi temi tornano a scaldare gli animi. Questo articolo tenterà di arrivare al momento in cui tutto è iniziato: la deportazione massiva di africani e la schiavitù. Di diritto e poi, tristemente, di fatto.

Gli americani hanno una venerazione che sfiora il sacro per la Patria, partecipano con commozione all’inno nazionale e si ritrovano sempre uniti nella percezione di un nemico esterno; sentono la Patria come una cosa propria, intima, mettono la mano sul cuore e guardano al cielo rapiti. La stessa sacralità viene riservata ai due documenti fondativi della loro storia, la Dichiarazione d’Indipendenza (che segnò l’inizio della vera rivoluzione americana, nel famoso 4 luglio 1776) e la Costituzione (adottata nel 1787, in seguito alla vittoria della guerra da parte di George Washington).

La prima, scritta e voluta da Thomas Jefferson, è una stupenda rivendicazione della propria libertà e ne viene spesso citata la frase “tutti gli uomini sono creati uguali e hanno inalienabile diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”. Considerato, però, che Jefferson possedeva schiavi (così come Washington e altri tre presidenti) e che in tutte le 13 colonie liberate la schiavitù era legale, sorge immediato il dubbio di quali uomini si stesse parlando davvero. Una simile incoerenza si ritrova anche nella Costituzione stessa, che nella versione originale conteneva norme a tutela dello schiavismo, come il diritto di riprendere e punire i fuggitivi o anche il fatto che, ai fini del calcolo dei rappresentanti in Parlamento dei singoli Stati, gli schiavi contassero come tre quinti di un uomo libero. Bontà loro, almeno erano in qualche modo considerati. Queste norme sono state abrogate, ma gli USA sono così “giovani” che probabilmente qualcosa scorre ancora nel sangue dei discendenti dei padri fondatori.

Spesso si fa un parallelo con altre forme di schiavitù americane, citando ad esempio le orde di poveracci che dall’Europa vi cercarono fortuna, trovando invece sfruttatori e condizioni di vita e lavoro al limite del disumano. Questo approccio del “ma anche” sembra, però, ridurre la questione afroamericana, senza tentare di risolverla o comprenderla, solo elevando i problemi degli altri immigrati. Eppure, in USA la schiavitù – parola contraria al proclama di libertà – arriva di fatto a costituirne il fondamento, di una libertà destinata a pochi. Il fatto di riuscire a mantenere una categoria sempre sotto il proprio controllo, in tema di diritti e opportunità, pare favorito dalla diversa razza, da caratteristiche somatiche nettamente riconoscibili. Questo secondo alcuni storici ha segnato il diverso percorso tra gli europei, che sono riusciti a fondersi nel “melting pot” (il crogiolo delle etnie), e i deportati africani che ancora oggi devono lottare per affermare il proprio diritto. L’uomo è un essere semplice, con intelligenza limitata e poco tempo per imparare: dagli un dogma intuitivo e lo terrà sempre con sé. Infatti, l’equazione assurda per cui bianco significa dominatore e non bianco equivale a essere inferiore tuttora pervade la società – sarebbe bello poter dire solo americana.

Leggiamo in questi giorni le polemiche su HBO che toglie “Via col Vento” dalla piattaforma, su richiesta di John Ridley, lo sceneggiatore del film “12 anni schiavo” (dall’autobiografia di Solomon Northup). Ridley vuole che il reintegro della pellicola contenga un trailer con avvertenze su quella che è una visione della Storia fuorviante e mistificata, suggerendo inoltre letture e film più aderenti alla realtà. In effetti, c’è poco da dibattere su cosa e come sia stato per un nero vivere la schiavitù, altro che “badrone” gentile e premuroso o soldati confederati dipinti romanticamente come ribelli. Ma quale nobiltà d’animo! La guerra di Secessione si scatenò in risposta all’elezione del Presidente Abraham Lincoln e alla sua decisione di abolire la schiavitù. Per gli Stati del Sud, in cui pochi proprietari si arricchivano con il commercio del cotone, sfruttando manodopera a costo zero, fu un colpo al cuore (del portafogli); per tanto che si possa discutere sulle cause eterogenee e concorrenti di ogni guerra, nel caso del milione di morti della Guerra Civile, l’ideologia fu esplicita; Alexander Stephens, Vice-Presidente degli Stati Confederati, in tutta semplicità disse, poco prima dell’attacco iniziale: «Gli schiavi africani saranno la pietra d’angolo della nazione che costruiremo dopo la vittoria. Jefferson è partito da assunzioni sbagliate: la grande verità è che il Negro (testuale, sigh) è inferiore alla razza bianca per condizione naturale».

Le premesse erano chiare, incontrovertibili. E dopo la vittoria, gli Stati del Nord (Lincoln in primis) persero l’occasione per estirpare l’idiozia razzista dalla radice; la stanchezza per una guerra fratricida, la felicità per una pace ritrovata e la voglia di dimenticare e andare avanti portarono gli americani a sorvolare sui crimini della schiavitù. Nel discorso di Gettysburg, altro luogo/evento sacro per gli americani, Lincoln parlò di una «nuova nascita per la libertà» e in effetti il periodo della cosiddetta Ricostruzione diede a molti afroamericani l’illusione di poter essere finalmente considerati uguali. Avevano guadagnato libertà civili, come sposarsi o studiare, e anche politiche ma negli Stati del Sud il sistema gerarchico basato sul colore della pelle non fu mai veramente eliminato, finendo col riservare ai neri una forma di schiavitù più subdola, basata sulle minori opportunità di avere successo, sul limitato accesso – oggettivo – all’istruzione superiore, alle cariche pubbliche e molto altro. Per assurdo, furono i perdenti a riscrivere la Storia e la cultura delle nuove generazioni, con libri e film che offrivano la verità meno scandalosa, in linea retta con il puritanesimo wasp, che nulla fece per impedirlo.

Incredibile pensare come qualcosa abbia iniziato a cambiare solo a metà del ‘900, partendo dalle stesse università i cui palazzi portano tuttora i nomi degli schiavisti, o che furono addirittura costruite dagli schiavi. Ai primi corsi di studio su Secessione e Ricostruzione e sulla storia afro-americana, hanno fatto seguito importanti libri e film per molti sconvolgenti. Alla fase di accettazione della brutta Storia americana, è seguita quella che radicalizza il problema della cosiddetta “supremazia bianca”, definizione che riporta alle convinzioni di secoli prima, abbandonate colpevolmente nella polvere a germinare.

American History X recensione 20 anni dopo uscita cinema - i-D

Il film citato nel titolo, “American History X“, del 1998, racconta di come le ideologie vengano trasferite vivendo e respirando una situazione di tensione razziale ogni giorno. Racconta la vita e morte di un membro entusiasta della “Fratellanza Ariana” e non a caso mette alla base di un qualsiasi cambiamento proprio l’istruzione. Il fratellino adorante del protagonista scrive una tesina scolastica, ce lo fa amare quel meraviglioso Edward Norton ma ci costringe anche a volere qualcosa di diverso, a seguirlo nella decisione di rifiutare un corso di vita che pareva scritto da altri. Ci lascia una profonda tristezza ma un barlume di speranza.

Vent’anni dopo, però, leggiamo che Trump ha deciso dove tenere il primo comizio della sua campagna di rielezione e sale lo sconforto. Il Presidente più controverso della nostra generazione, uno che batte Bush a mani basse, può scegliere tra migliaia di città in 50 stati; lo fa nel mezzo di un movimento di protesta che coinvolge tutti i colori dell’arcobaleno americano, che attrae per la prima volta anche fasce di popolazione e reddito senza problemi. E sceglie Tulsa, Oklahoma; dove ci fu la “notte dei cristalli” americana, con centinaia di neri morti per mano di una folla inferocita di bianchi, che arrivò per terra ma anche in volo, lanciando molotov dal cielo sulle case di legno. Era il 1921, mentre noi eravamo distratti da affascinanti piani di grandezza, in America fu raso al suolo l’intero quartiere di Greenwood, ben 35 isolati di case. Solo alla fine di quel che rimaneva da distruggere, la folla si placò. Nel 2020 Trump lancia la sua campagna a suon di armi, ricchezza e distinzioni proprio da Tulsa. Di certo non gli manca la coerenza.