Sono passati quattordici anni da quel 31 maggio 2006, giorno in cui lo scultore spagnolo Miguel Ortiz Berrocal terminò all’improvviso i suoi giorni ad Antequera, bellissima cittadina dell’Andalusia. Aveva 72 anni e ancora molto da raccontare con la sua vita e le sue opere d’arte. Nato a Villanueva de Algaidas (Malaga) nel 1933, Berrocal è stato uno dei più grandi scultori della nostra epoca. Ha inventato un modo originalissimo di manipolare la materia, soprattutto i metalli, e le sue opere sono esposte nei maggiori musei del mondo e nelle piazze di tutte le principali città di Spagna e non solo.

Una vita assai intensa la sua, trascorsa nella prima metà fra Spagna, Germania, Francia e Stati Uniti: paesi che l’hanno visto dapprima formarsi professionalmente, poi affermarsi in campo internazionale. Durante i suoi percorsi artistici, fra l’amicizia con Alberto Giacometti e Alberto Burri e quella certamente speciale con Paloma Picasso, figlia dell’inarrivabile pittore malagueño, matura la propria concezione di arte, inventando un sistema di scultura “smontabile” che di fatto poi caratterizzerà tutta la sua opera successiva e che ha avuto il merito di rivoluzionare il concetto contemporaneo di scultura tradizionale.

Miguel Berrocal ritratto in un’opera di Andy Warhol del 1982

E al tempo stesso il fruitore viene letteralmente invitato, quasi obbligato, a toccare l’opera, a giocarci, abolendo le barriere di rispetto e pura contemplazione che di solito vengono erette, anche inconsciamente, fra lo fruitore stesso e il frutto dell’opera dell’artista. L’applicazione alla scultura di tecnologie fino ad allora mai utilizzate per finalità artistiche, favorisce il processo di simbiosi fra arte, scienza, design e matematica, caratterizzandone al contempo l’impronta concettuale e la ricerca plastica.

All’età di 34 anni, nel 1967, l’artista spagnolo dopo tanto peregrinare alla fine decise di stabilirsi vicino a Verona, a Negrar, fra le dolci colline della Valpolicella, dove ha poi vissuto gran parte della sua vita, dove sono nati i suoi figli Carlos e Beltran (avuti dalla nobildonna portoghese Maria Cristina Blais di Braganza, sposata nel 1976) e dove ha continuato senza sosta a realizzare sculture straordinarie.

La sua natura curiosa e per certi aspetti improntata alla trasmissione del sapere rendeva ogni visita alla sua casa (la splendida dimora veneta Villa Rizzardi), sempre aperta, ospitale e frequentata da artisti, studenti, giornalisti noti a livello nazionale o “in erba” e amici, fra cui un sempre morigeratissimo Tinto Brass, un’occasione di apprendimento, conoscenza o anche di semplice curiosità, grazie ai numerosi aneddoti di cui la sua esistenza era piena, e che dispensava con grande generosità, quando era dell’umore giusto.

«Fino a diciotto anni rimasi in Spagna e tutto quello che appresi me lo diedero la scuola e le letture, pur considerando la censura (imposta dalla dittatura di Francisco Franco, nda) dell’epoca», ci confessò durante un’intervista, un giorno di tanti anni fa nel suo studio, fra un bicchiere di vino e qualche tapas di formaggio iberico e del celebre jamon Serrano, fatto arrivare a Verona direttamente dalla Spagna.

«Dopo mi traferii in Francia, dove ricevetti l’apprendistato e professionalmente imparai moltissimo, soprattutto sull’arte contemporanea. Negli Stati Uniti ebbi modo di approfondire alcune conoscenze e di scoprirne altre ancora. Sono venuto a Verona per fuggire a una vita troppo distratta, frenetica, vissuta fino a quel momento in giro per il mondo. Ad un certo punto ho cominciato a desiderare di fermarmi un momento e l’Italia mi sembrava il posto l’ideale per farlo. Da Parigi sono dunque tornato in Italia, dopo aver già trascorso un periodo a Roma da studente, anche e soprattutto per la presenza di fonderie, indispensabili per la mia arte. Ho scoperto Verona per caso: avevo visto in precedenza la porta di San Zeno, ma non potevo immaginare che persistesse ancora oggi una tradizione nella lavorazione del metallo. In effetti delle fonderie del passato non rimaneva granché, ma anche grazie al mio aiuto ne è stata rimessa in piedi una di buone dimensioni, che oggi ha assunto un’importanza internazionale.»

L’opus 252, un dei torsi del ciclo Almogaváres, in una riproduzione in scala

A Verona Berrocal si è dedicato all’utilizzo di tecniche non tradizionali, complesse e raffinate, derivate dalla tecnologia più che dall’artigianato; la sua arte si è poi evoluta e negli anni si è allontanata molto da quella degli esordi. Col tempo ha affinato lo stile, trovando ispirazione nell’arte classica, prima, e nel barocco, poi.

Contrario a una visione elitaria dell’arte, ha concepito le sue opere come oggetti replicabili, certo in edizioni limitate, ma più accessibili e destinati così non solo alla stretta cerchia dei collezionisti, ma anche agli appassionati. «La tradizione della fonderia sta pian piano scomparendo – commentò con rammarico in quell’occasione. – I giovani non sono interessati a questa nobile attività, manca la manodopera e soprattutto non ci sono vere e proprie scuole che insegnino le tecniche di fusione.»

All’epoca in cui il Maestro arrivò nella nostra città vi erano solo sporadiche iniziative dedicate all’arte contemporanea, intraprese da qualche coraggioso gallerista privato.

«Il confronto è necessario per la crescita culturale di un ambiente – spiegò, ancora, Berrocal, durante la chiacchierata. – e Verona, in questo senso, all’epoca era ancora un po’ provinciale. Con il restauro di Carlo Scarpa del Museo di Castelvecchio si è cominciato a dare un importante impulso al movimento della città: egli ha mantenuto l’aspetto medievale della dimora scaligera, ma l’ha anche attualizzata, realizzando un’opera stupenda e attirando così l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e di un notevole numero di artisti.»

Negli anni successivi Verona si è dotata di tanti altri “luoghi di conoscenza”, come il Centro Internazionale di Fotografia degli Scavi Scaligeri (purtroppo chiuso alcuni anni fa e il cui destino è tutt’ora incerto), la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti e, soltanto alcuni mesi fa, la Casa-Museo di Palazzo Maffei, in cui è raccolta la collezione di Luigi Carlon.

Miguel Berrocal accanto all’Opus 259,
l’Almogávar X, nel giardino di Villa Rizzardi.
Foto di Piero Oliosi.

«Ogni periodo della vita è caratterizzato dal meccanismo delle influenze», aveva proseguito Berrocal, sempre nell’intervista prima citata. «Tutto è stato importante per la mia formazione, di uomo e artista, anche se, in verità, non saprei dire precisamente in cosa Verona mi abbia veramente influenzato. Di certo sono cambiato come uomo nel corso di tutti questi anni e di conseguenza è mutata nel tempo anche la mia arte. La mia permanenza prolungata in questa città avrà sicuramente contribuito a tutto ciò. Non credo di aver lasciato un seguito o di aver influenzato in maniera determinante la cultura e l’arte di Verona. Probabilmente lo hanno fatto di più quegli artisti che io, con la mia presenza, ho richiamato qui ed è forse stato questo il mio merito più grande».

In realtà, però, sappiamo tutti che Berrocal ha lasciato una traccia ben più che indelebile del suo passaggio non solo a Verona e in Italia, ma anche nel resto d’Europa e del mondo, con la sua arte “smontabile” e quell’animo da eterno fanciullo di chi non vuole mai smettere veramente di giocare: con i materiali, con i numeri, con le idee, con l’arte. In una parola, con la vita.