L’industria cinematografica di Hollywood ha impiegato un po’ di tempo prima di accorgersi delle potenzialità visive contenute nella produzione dello scrittore americano Philip K. Dick. Oggi basta leggere uno qualsiasi dei suoi libri per rendersi conto che la cosiddetta “science fiction”, di cui ormai oggi è considerato un maestro indiscusso, negli ultimi quarant’anni ha attinto a piene mani dalla sua opera. Nonostante ciò, per Dick la fantascienza è stata solo un grande pretesto per affrontare i tormenti più profondi dell’uomo contemporaneo, gettando con i suoi scritti un ponte che attraversa ogni epoca e trascende confini storici, sociali, addirittura temporali, in un equilibrio che rende le sue storie più riuscite meravigliosamente perfette, pur nella loro imperfezione. A partire dal suo primissimo racconto, Roog, una storia per molti aspetti grezza che permette, però, di intravedere ciò che sarebbe arrivato più tardi. Nei suoi racconti brevi la statura di Dick appare limpida, quasi introvabile, mentre la paranoia sotterranea si intreccia a un’inventiva sconfinata e a soluzioni tecniche quasi mai scontate. In Dick troviamo alienazione, solitudine, morte, ma anche banale vita quotidiana nelle sue declinazioni più diverse. Quando il suo personaggio più disperato, Rick Deckard – il protagonista di Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? che ha poi ispirato Ridley Scott per il suo capolavoro Blade Runner – parla con l’androide Rachel di amore e disperazione, il dialogo sembra appena uscito da un Raymond Carver qualsiasi.

Dick ha scritto complessivamente 121 racconti e 45 romanzi in un arco temporale che va dal 1955 al 1982, conoscendo di fatto il successo solo sul finire della propria vita. Come uno spartiacque in un’esistenza rapida e densa – ebbe cinque mogli e un rapporto assiduo con le droghe sintetiche – il febbraio-marzo del 1974 fu per lui un momento di rivelazioni straordinarie, da comunicare nel suo caso attraverso la letteratura. Non a caso in Exegis, una sorta di diario iniziato proprio dopo quel periodo strano, scrisse: «Mi sembra di vivere sempre di più dentro i miei romanzi. Sto perdendo il contatto con la realtà? O forse è la realtà a scivolare verso un certo tipo di atmosfera alla Philip Dick?». Sì, scrisse proprio così: “un certo tipo di atmosfera alla Philip Dick”. Pur nei suoi deliri pseudoreligiosi, l’autore americano aveva ben chiaro di aver creato un mondo di immagini che in qualche modo avrebbero condizionato anche gli anni a venire. Il cinema, come accennato all’inizio, sta lì a dimostrarlo in tutto il suo splendore. D’altronde, come accade anche per altri autori, le esperienze private sono importanti solo quando diventano materia effettivamente narrata, inserita nel circolo condiviso dagli scrittori e dai loro lettori. E Dick era, in questo senso, un «visionario tra i ciarlatani», come venne mirabilmente descritto dal suo collega polacco Stanislav Lem. La sua qualità visionaria risiedeva, d’altronde, nelle sue ossessioni personali, che vennero trasformate in geniale plot narrativo che coinvolge i lettori ben al di là del semplice (si fa per dire) livello biografico.

Non è certo un caso se oggi è uno degli autori di romanzi più “rappresentato” dal mondo in celluloide: dal celeberrimo e già citato Blade Runner, con uno struggente Harrison Ford, ad Atto di Forza (in addirittura due versioni, la prima con Arnold Schwarzenegger e la seconda con Colin Farrel), da Minority Report di Steven Spielberg, con Tom Cruise, a Paycheck di John Woo, con Ben Affleck, e A Scanner Darkly di Richard Linklater, tratto dal romanzo Un oscuro scrutare, considerato uno dei suo capolavori, senza dimenticare la recentissima serie tv The man in the high castle, tratto dal suo distopico La svastica sul sole, un “what if” raffinato e imprevedibile dove postmoderno e metaletteratura vengono fusi in un meccanismo quasi perfetto. E questo solo per citare i casi più celebri.

Lo scrittore Philip K. Dick, scomparso nel 1982

Dick fu un autore profondamente americano. Nei suoi scritti si trova il rapporto sofferto e contradditorio tra realtà e illusione, tra esseri umani e simulacri, tra potere politico e individuo, tra il genere della fantascienza e la tradizione che guarda a John Steinbeck e Jack Kerouac. Tematiche tipiche di una letteratura a stelle e strisce, che però assumono valore universale, perché le domande che si pone, ad esempio sul concetto di identità, valgono tutt’ora a livello globale. Le contraddizioni interne degli USA e la crisi del “sogno americano” che a suo modo anche lui, al pari di altri, seppe descrivere molto bene, oggi rappresentano un tema dal quale nessun romanziere di livello (ma anche autore di sceneggiature di film e serie TV, volendo allargare il discorso) può davvero prescindere. Dick è diventato un classico apparentemente alla Letteratura con la L maiuscola del secondo Novecento. Non è quindi legato a fenomeni strettamente “attuali” e può essere apprezzato anche per quegli aspetti che lo collocano in un’epoca storica sorpassata. In effetti se si applicassero certi parametri alla letteratura, tutti i grandi scrittori del passato potrebbero essere considerati ormai obsoleti, ma sappiamo bene che è il loro linguaggio a renderli ancora vivi. Oggi più che mai.