Molti pensano che parlare di calcio in questo momento così difficile sia superfluo, forse anche fuori luogo. La gente soffre, molti purtroppo non ce la fanno, non si può sprecare del tempo per venti ragazzotti che rincorrono un pallone. Eppure, credo davvero che uno dei metodi migliori per superare un evento traumatico sia aggrapparsi ancora più forte alle piccole e grandi felicità che la vita – anche in quarantena – ci offre. Mentre molti scrivevano la lista delle “cose che devo fare”, io ne ho compilata una delle “cose che amo”, quelle che mi danno un sorriso anche al solo pensarle.

In cima alla lista c’è il mio Verona, una storia lunga quarant’anni, più intensa di qualunque innamoramento, più totalizzante delle tante avventure che pure ho vissuto. Da sempre viene prima del mio istinto materno; ricordo mio figlio di circa un anno che al goal di Cassetti venne lanciato per aria tra tutti gli spettatori presenti nel mio salotto, ai tempi in cui si faceva colletta per comprare le partite sulla payTV. Non regge il confronto neanche con gli impegni familiari, se si pensa che ho scelto la data del matrimonio solo dopo l’uscita del calendario e organizzato tutto in un paio di mesi; in un’epica domenica di maggio sono stata elegante e truccata alle nozze di mio cognato, poi mi son cambiata in macchina verso Mantova e infine nuovamente splendida per il ricevimento serale. Tutto si può fare, basta essere organizzati.

Tanti anni, tante sciarpe

Insomma, non sono normale. Mai pensato di esserlo. Colpa anche di un’educazione alternativa, che prevedeva un sabato mattina tra edicola di via Palladio, Antistadio, autografi dei giocatori e infine panino con la spuma. Negli altri giorni, seguivo mio padre in torrefazione e, mentre lui “faceva i conti” del venduto, mi sedevo sulle ginocchia di un ex giocatore gialloblù che, rimestando i chicchi di caffè in tostatura, mi raccontava tante storie. Suo figlio, per me un fratellone, mi regalò la mia prima felpa delle Brigate, blu con una semplice scala gialla; lui non se lo ricorda nemmeno ma fu stupendo sentirmi parte di quel mondo, per me che ero piccola e femmina, quindi esclusa. Quella felpa enorme (quando mai un maschio azzecca la taglia) è stata per anni un nascondiglio in cui infilarmi per superare i brutti momenti.

Son matta, si diceva. E come tutti i pazzi, credevo di essere l’unica. Poi però, domenica scorsa, è successo un piccolo miracolo. TeleArena ha trasmesso la partita Verona-Juventus del 14 ottobre 1984, un 2-0 secco e meraviglioso, Nanu e Preben. La partita era accompagnata dal commento di Roberto Puliero, la vera voce dei tifosi, il cantore delle gesta eroiche del Verona, della sua corsa verso uno scudetto che ancora era nei nostri sogni deliranti. È successo che, mentre le immagini sdoppiate, sfuocate, scolorite passavano davanti ai miei occhi, questi si riempissero di lacrime. Di pura gioia. Ma il miracolo vero è stato sentire che al 36mo del secondo tempo, al goal di Elkjaer tutto, ma proprio tutto il mio quartiere risuonava di un solo grido: reteeeeeeeeeeee, alè aleè bum bumm viva viva. Sembrava di nuovo quella notte del luglio 2006, l’urlo liberatorio della vittoria, suono collettivo in cui il singolo sparisce per diventare tutto.

Puliero con capitan Tricella

Come avrebbe detto Puliero, “quando segna el Verona, el me cor el se incocona”; è stato proprio così, molti cuori hanno tremato, hanno perso un colpetto. I nostri pensieri si sono rivolti al nostro grande amore e a quel Roberto che per tanti anni è stato per noi una cosa sola con la squadra. Ci ha fatto compagnia quando non si poteva andare in trasferta, quando non c’erano le partite in televisione; ma anche quando, per la squalifica del campo, ci ritrovammo tutti sotto la curva a cantare come forsennati durante un Verona-Salernitana (la stessa cosa fatta dai tifosi valenciani nella partita contro l’Atalanta, solo 15 anni prima). Puliero è stato la meravigliosa colonna sonora di un film che continua a tenerci attaccati anche dopo che la musica ci ha tristemente lasciati; la combinazione tra la sua voce tintinnante, ritmica, e la partita che ci fece intravedere per la prima volta il Sogno è stata per molti di noi la gioia più bella di una domenica di quarantena.

Ci siamo resi conto, tutti insieme, di quanto ci manca il nostro Verona. Queste interminabili giornate amplificano mille volte il suono meraviglioso dell’esultanza per un vecchio goal. Ho sentito urla vere, di gente vera, che non ne poteva più di trattenersi e ha finalmente potuto sfogare tutto il suo amore. Non è semplice portare l’allegria nel mondo. Chi ci prova spesso viene additato per strano, chi ride troppo forte sembra inopportuno, chi abbraccia uno sconosciuto viene etichettato come alienato, se non pericoloso. Eppure, allo stadio tutto questo diventa normale, anzi. Non conosco nessun posto dove si possa esprimere ogni emozione senza essere giudicati, dove sia permesso urlare, cantare, inveire… tutto nella massima libertà. Forse è la reclusione, ma allo stadio siamo liberi di DIRE la nostra gioia, come ci pare, senza condizionamenti né giudizio. L’unica occasione in cui, personalmente, esplodo e salto in aria, lancio i pugni al cielo e urlo con tutto il fiato è quando segna il mio Verona. Per voi forse è lo stesso, anche se non ci avete mai pensato.

La gioia cui mi aggrappo oggi, per arrivare a domani e poi a lunedì prossimo e a quello successivo, è il mio Verona. La faccia di Daniele Cacia mentre ci porta fuori da un incubo, le mosse da puma di Iturbe e la grazia sulle punte di Jorginho; penso al ragazzo del primo autogrill dopo Piacenza, seduto in silenzio contro un cestino dell’immondizia, e a quello che ha diviso con me una piadina gonfia d’acqua a Rimini. Mi attacco forte allo sguardo sfuggente di Volpati e Bagnoli, ma anche alle linguacce del Pazzo e alla goleada nel nubifragio di Legnano. Mi sembra dolce anche la notte in bianco, incredula, dopo Verona-Spezia e mi strofino ancora gli occhi per le tante ventiquattr’ore filate per Lazio, Pescara, Giulianova, Palermo. E chissà quante altre.

Nicola Ferrari, signori…

Sono piccoli ricordi che mi rendono felice, per assurdo anche le sconfitte, i tempi bui. Perché del calcio mi manca tutto, ogni momento; mi manca la gente e mi manca lo stadio, mi manca quella libertà di urlare contro il mondo che sono viva.

E ora ho la conferma che siamo in tanti con le stesse malinconie. Se uno, dieci, cento esultano e si commuovono per un goal di 35 anni fa, è fin troppo facile pensare che sia colpa della reclusione, che ci abbia dato il colpo di grazia alla già instabile testa.

Eh no, la colpa è del Verona, con la pioggia o con il sole.