Nel 2007 è stata pubblicata una interessante raccolta di saggi curata dal noto filosofo Massimo Recalcati dal titolo Forme contemporanee di Totalitarismo. La tesi della pubblicazione era che il Totalitarismo non era affatto morto con l’89 e la caduta del Comunismo, ma aveva trovato ambiti di nicchia in cui sopravvivere, mimetizzandosi sotto diverse sembianze. La società democratica occidentale aveva in qualche modo conservato al suo interno delle sacche di totalitarismo che si alimentavano con l’assenso, implicito o esplicito, delle masse. Facciamo un salto temporale di qualche anno e arriviamo al 2019, quando per i tipi della LUISS esce l’importante contributo di Shoshana Zuboff dal titolo Capitalismo della Sorveglianza, nel quale si analizza una caratteristica fondamentale della moderna società dei consumi basata sul modello economico capitalista, ovverosia quello di essere fondata su di in rigoroso controllo sociale attuato attraverso la sorveglianza capillare (e molto spesso inconsapevole) di ogni nostra azione, controllo attuato con i più svariati mezzi, a partire dalla Rete. Vi sarà capitato di cercare su Amazon un prodotto e trovarvi poi la timeline di Facebook letteralmente infettata della pubblicità di prodotti simili. L’algoritmo controlla ogni nostra azione ed è pure in grado di orientare i nostri desideri con operazioni di microtargeting mirate. Il fatto è che noi molto spesso non ce ne accorgiamo.

Solo pochi mesi dopo il mondo è travolto dalla pandemia di Covid 19, il coronavirus che, partendo dalla Cina, si è diffuso su tutto il pianeta colpendo in maniera particolare l’Italia. Il resto è attualità. A questo punto abbiamo delle linee da unire, per definire i contorni di una situazione di estremo interesse nella quale ci troviamo coinvolti. La Cina, con un’abile operazione propagandistica della quale questo giornale si è occupato con un precedente articolo, punta a far passare in secondo piano le sue pesanti responsabilità nella diffusione della pandemia, proponendosi come una superpotenza che offre il suo benevolo e disinteressato aiuto alle nazioni colpite dal virus che essa stessa ha contribuito a diffondere, e in particolar modo all’Italia la quale fino a ora è la nazione che più ne è stata funestata. Il “sistema cinese” per il contenimento dell’epidemia, costituito da un rigidissimo controllo sociale unito a una pesantissima restrizione delle libertà civili, è diventato il modello da applicare anche in Italia per aver ragione della diffusione del virus. Non è questa la sede in cui discettare dell’efficacia dei provvedimenti presi, ma di sicuro è di maggior interesse analizzare come la società pressata dalla paura di un contagio ancora per molti versi poco conosciuto stia reagendo e si stia, per certi aspetti, trasformando. La paura è uno dei sentimenti più forti e antichi dell’uomo. Retaggio di tempi ancestrali, quando la razza umana era solo una tra quelle che si contendevano il predominio sul pianeta e l’istinto di autoconservazione da essa stessa mantenuto attivo aumentava le possibilità di sopravvivenza, rappresenta oggi uno dei carburanti con i quali i sistemi totalitari mobilitano il consenso.

La paura si esorcizza con una cosa sola: la sorveglianza. Sorveglianza che, come abbiamo appreso dagli studi della Zuboff, è la caratteristica saliente della fase attuale del Capitalismo, cioè della nostra società nel suo complesso. Per suscitare la paura il regime totalitario ha bisogno di evocare un nemico, che il Nazismo individuava negli ebrei, mentre il Comunismo nella borghesia. Condizione necessaria e sufficiente è che la massa dia di sua spontanea volontà il consenso al regime. I sistemi totalitari hanno bisogno di fede, non di costrizione, anche se, ovviamente, l’apparato repressivo è uno degli ingranaggi fondamentali della macchina totalitaria. La nostra società ha accolto, almeno in larga parte, in maniera assolutamente devota la compressione della libertà individuale che per il “modello cinese” è necessaria per il contenimento del virus, al punto tale che si è ricreato in maniera accademica il meccanismo di consenso totalitario fondato sulla paura (input) che genera consenso (process) e la reazione contro il “nemico” (output), ovvero chi non si conforma alla narrazione.

Ogni epoca ha avuto i suoi untori. Questo è ciò che succede, ma possiamo fare un passo avanti e cercare di capire se il fatto che oggi i cittadini italiani accettino di buon grado la compressione delle loro libertà individuali, seppure per un importantissimo fine di preservazione della salute pubblica, sia il segnale che domani potrebbero fare lo stesso magari per un motivo meno urgente di una pandemia che sta richiedendo un tributo pesante di vite umane? La domanda non è così peregrina, se solo si pensa che nel Belpaese è stato incubato uno dei totalitarismi del XX secolo, seppur “incompiuto”. Pensiamoci bene. L’Italia è il Paese che ha vissuto il Fascismo eppure ancor oggi la nostalgia per “l’uomo forte” è tale che le foto di Mussolini sono più diffuse sui social di quanto non lo fossero per le strade nel 1935. I politici che fondano il loro consenso sul culto del capo e su una narrazione basata sulla pastorale della paura e del controllo sono quelli che vanno per la maggiore da decenni ormai. L’insofferenza nell’opinione pubblica per la democrazia è tale che i modelli a cui si guarda quasi con ammirazione sono quello putiniano o cinese. Il pensiero critico, l’unica arma realmente efficacie contro le fake news e la dissonanza cognitiva egemoni nel dibattito civile, è così poco diffuso che per contrastare le derive sociali dell’odio di massa si pensa a commissioni contro “l’hate speech”, cioè a regolamenti e paletti legislativi. Per decenni la stessa opposizione fu rappresentata da un partito che aveva lo scopo più o meno esplicito di instaurare un regime comunista.

Si chiacchera da lustri di “liberalizzazione” eppure in piena emergenza coronavirus il governo in carica non trova di meglio da fare che investire centinaia di milioni di euro – che sarebbero più utili altrove – per nazionalizzare una compagnia aerea tecnicamente fallita. Cioè, di fatto, per aumentare la sua sfera di competenze. Siamo davvero sicuri che domani, per qualunque altro motivo, meno urgente del salvar vite umane ma imbellettato dalla retorica dell’interesse collettivo, gli italiani non saranno disponibili a rinunciare a ulteriori spazi di libertà? Già viviamo tutti immersi in un sistema economico che lascia solamente una libertà illusoria al cittadino consumatore. Il “capitalismo della sorveglianza” ci ha già trasformati – magari inconsapevolmente – in sudditi di un sistema economico. Tutto lascia sospettare che la nostra società sia già molto predisposta a rinunciare ad ambiti di libertà per barattarli con quello che sembra stargli più a cuore, ovverosia la protezione. La domanda vera è: siamo davvero sicuri che agli italiani la libertà piaccia? O che piuttosto, alla fine, non preferiscano il controllo?