Fin dalla fine della seconda Guerra Mondiale, l’ordine globale ha mantenuto una sua logica, un’ideale linearità, fondata sull’egemonia degli Stati Uniti e tesa a preservare l’impronta occidentale, sia economica che politica. Si è basato su una prevalenza americana, condivisa per amore o necessità dal blocco dei Paesi europei, nel tentativo di arginare quello che era il “nemico” del tempo, l’ideologia comunista. In questo contesto, la combinazione naturale era quella tra libertà politica e libertà di mercato, arginate dal multilateralismo: la nascita di numerose organizzazioni sovranazionali per moderare o risolvere criticità, come ONU, Banca Mondiale, Fondo Monetario ma anche al WTO per il commercio e gli accordi di libero scambio.

Questo impianto eliocentrico – dove il sole è rappresentato dalla volontà e capacità degli USA di difendere, in pace e in guerra, l’ordine liberale – sta progressivamente venendo meno, sotto le spinte di una potenza sempre più ingombrante: la Cina. Una scena, con due potenze a muso duro, che rimanda alla Guerra Fredda, ma con alcune differenze, prima fra tutte l’assenza di minacce fisiche. E poi, la Cina per certi versi è il contrario dell’URSS, resta lontana dall’ideologia del proselitismo, la vocazione a convertire che rese il comunismo così affascinante e attrattivo per tanti Paesi e schiere di intellettuali. Anche gli USA non sono più gli stessi, specialmente con Donald Trump, il primo Presidente a occuparsi molto più degli affari (propri) interni che dell’immagine di Padre Buono di fronte al resto del mondo.

Donald Trump e Xi Jinping

Ma a cambiare è stato soprattutto il tessuto economico, che vede ora le due super potenze “nemiche” su alcuni fronti, ma necessarie una all’altra su molti altri. Gli intricati rapporti economici hanno di fatto smorzato la sensazione tipica della Guerra Fredda, il bipolarismo aggressivo, la bomba pronta a esplodere, la demagogia del noi o loro.

Restano tra i due poli diverse macro-aree di influenza non proprio allineate, pronte a cambiare “padrone” allo schioccare di progetti e investimenti; appare evidente una frammentazione del risiko mondiale per blocchi, in ciascuno dei quali uno Stato prevalente svolge la funzione di guida, illuminata e condivisa dai membri; gruppi di nazioni con identità culturali e religiose simili, oppure con interessi economici allineati o anche solo nemici in comune, che perseguono cooperazione interna e competitività esterna. Mentre l’ordine liberale si prefiggeva la collaborazione tra le grandi potenze, estesa a tutte le nazioni, il nuovo assetto sembra basarsi sulla miglior gestione delle crisi e delle prevaricazioni tra gli Stati-guida, relegando libero scambio e sostegno reciproco all’interno di ciascuna macro area.

Il risultato di tutte queste alleanze e dispute, del protezionismo con dazi e controdazi è un generale rallentamento del commercio mondiale: dopo decenni, nel 2018 la massa complessiva degli scambi ha iniziato la curva discendente e a fine 2019, per effetto della disputa USA-Cina, il WTO ha dimezzato le prospettive di crescita rispetto all’anno precedente. Ancora più pericolosa è la “guerra tecnologica” delle due potenze, che potrebbe generare due enormi bolle al cui interno vigono regole diverse e che non comunicano tra loro.

Per quanto sia determinante trovare un punto d’incontro e ridurre le distanze ideologiche e di metodo, risolvere le contese diventa sempre più complicato, a causa della delegittimazione degli organismi internazionali, minati da scarsa autorevolezza se non, come il WTO, di fatto sabotati dagli USA con il rifiuto unilaterale di sostituire i giudici arbitrali in scadenza. Sono molti gli esempi in questo senso: dall’incapacità dell’ONU di prendere risoluzioni che risolvano davvero le crisi geopolitiche, fino al diminuito peso di IMF negli investimenti nei paesi in via di sviluppo, sostituito da… ancora loro, i cinesi.

Mniera di litio, il nuovo oro

Mentre gli USA sono distratti nelle beghe elettorali e il blocco occidentale si ostina a voler esportare democrazia e cancellare dittature, la Cina si è infilata nel tessuto economico di molti paesi in via di sviluppo, con iniziative infrastrutturali (come il corridoio sino-pakistano o la Belt & Road, la nuova Via della Seta) ma anche con investimenti nelle economie africane o dell’America Latina. Lo fa senza clamore e senza pretendere nulla in cambio: porta ricchezza senza preoccuparsi che vada in mani più o meno insanguinate, offre prestiti senza chiedere concessioni in termini di diritti umani o libertà civili. Pechino mira sistematicamente alle materie prime: le terre rare che i paesi d’origine non sarebbero in grado di estrarre (la Cina controlla il 90% della produzione globale) ma anche i beni alimentari, sviluppando irrigazione e agricoltura del Paese ospite in cambio di forniture sicure. Il commercio Cina-Africa, che nel 2000 era intorno ai 10 mld di dollari, si stima nel 2020 sarà venti volte tanto e il grande Esodo cinese verso l’Africa ha superato il milione di cittadini, una nuova colonizzazione senza violenza. O meglio, con armi meno evidenti.

La Cina è un rullo compressore, forte di un dirigismo statale incontrastato, della repressione del libero pensiero, di un popolo obbediente e votato al sacrificio. Gran parte degli obiettivi ambiziosi nel Libro Bianco per il 2016-20 sono già raggiunti e Pechino, per paradosso, diventa un modello di successo, da imitare, per tutti i paesi ancora alla ricerca di una identità politica “moderna”. Il disinteresse di Trump ha lasciato campo aperto alle strategie di Pechino e all’inatteso ritorno sulla scena della Russia. Isolata con le sanzioni dopo l’invasione della Crimea, Mosca si è rivolta verso est e ha stretto accordi importanti con la Cina. Ha anche accresciuto la sua ingerenza e influenza nello scacchiere mediorientale fino al Mediterraneo, dove in precedenza si era sempre limitata soltanto a fornire armi e mercenari. Gli equilibri sono instabili, una decisione o la mancanza di una decisione possono spostare i pesi del globo in un’onda di tsunami. Altro che teoria del caos, siamo al nuovo disordine mondiale.

La composizione del G20 – il gruppo dei primi 20 paesi per prodotto interno lordo – per decenni è rimasta inalterata, mentre negli ultimi anni si è assistito a un ricambio importante, con l’esclusione di molti paesi maturi e l’ingresso prepotente di quelli emergenti. Le previsioni per i prossimi vent’anni mostrano come solo tre/quattro dei paesi “fondatori” resisteranno all’interno del gruppo e fra questi non ci sarà nessuno di quelli europei.

Già, l’Europa: un’entità ancora incompiuta, come quei bambini che sarebbero tanto intelligenti ma non si applicano. Pochi sanno che per PIL aggregato l’Europa è al secondo posto nel mondo, dopo la Cina ma ben prima degli USA. La forza europea risiede nella sua sviluppata imprenditorialità e nelle proprietà intellettuali cosi spesso minate dallo spionaggio industriale (di chi, ve lo lascio immaginare). È un potenziale di influenza enorme, che però non sappiamo sfruttare. Sembra assurdo ma insieme all’ordine liberale, potrebbe implodere la sua prima “figlia”; nel momento storico in cui più si potrebbe e dovrebbe imporre come moderatore degli equilibri internazionali, la vecchia Unione Europea rischia di soccombere invece ai tumori al suo interno: populismo, divisioni e derive illiberali, anche se finora senza conseguenze elettorali di peso.

Von der Leyen, presidente Commissione Europea

Per recuperare rilevanza internazionale, la UE si deve porre come riferimento per tematiche globali, come ha già fatto con la regolamentazione di internet e della privacy. Il riconoscimento globale ottenuto per l’impianto normativo per la protezione dei dati (il cosiddetto GDPR) è un passo enorme nella giusta direzione, così come la crescente assertività negli ambiti del cambiamento climatico e la green economy, altro tema su cui potrebbe forgiare le sue nuove fondamenta. Mentre la Cina è già oltre il modello liberale, mentre gli USA sembrano operare per il suo graduale smantellamento (desautorando la WTO e perfino la NATO), gli unici attori globali in grado di riportare l’ordine o almeno di giungere a un nuovo equilibrio tra le forze sono proprio i Paesi europei. Devono dotarsi di istituzioni riconosciute e autorevoli, agire uniti e coesi, rinunciando ai sovranismi e al culto nazionale in nome di un interesse più ampio. I singoli Paesi possono avere interessi diversi senza smettere di condividere gli stessi valori, anche perché – a ben guardare – un’alternativa non esiste: ce lo vedete il Premier italiano Conte o la Cancelliera tedesca Merkel sedersi al tavolo di una trattativa alla pari con Xi Jinping?