La storia della Repubblica Socialista Federale di Yugoslavia, denominazione che le venne attribuita solo dal 1963, ebbe inizio nel 1945 con l’abolizione della monarchia e l’ascesa al potere di Yosip Broz Tito. Il Maresciallo costituì e organizzò uno Stato di ispirazione sovietica, pur senza i medesimi vincoli in campo economico e religioso. Riunì sotto medesima bandiera lingue, religioni ed etnie diverse, mantenendo una provvisoria e precaria pace sociale tra popolazioni culturalmente profondamente diverse. Leadership e pugno di ferro di quello che poi divenne sostanzialmente un dittatore, caratterizzarono la storia slava fino al 1980, anno della morte dello stesso Tito. Fu l’inizio della disgregazione della Repubblica che, tra moti indipendentisti e guerre, diede origine alle divisioni territoriali che caratterizzano oggi i Balcani.

Il Maresciallo Tito, quando ancora era un operaio

Tra tanti aneddoti e vissuti delle popolazioni di quelle terre, spesso tragici e degenerati in azioni di pulizia etnica agli inizi degli anni Novanta, ne vogliamo ricordare una più leggera fatta di sport e successo, di amicizia e di rivalità. Una delle innumerevoli vicessitudini che unì, e divise, dei cittadini della Yugoslavia. Il nostro racconto parte dagli anni Sessanta. In vari paesi e città dei Balcani, a pochi anni di distanza uno dall’altro, vengono alla luce dei bambini un po’ speciali: il primo tra tutti, nel 1960 a Cacak, è Zelimir Obradovic, poi a Sebenico nel 1964 nasce Drazen Petrovic, slavo per imposizione statale, ma croato di etnia e natali. Nel 1966 è la volta di Jure Zdovc, sloveno, ma anche dei serbi Paspalj e Savic, poi nel 1968 nella croata Spalato, tocca a Toni Kukoc, di qualche mese preceduto dal serbo Vlade Divac. Un comune denominatore li unisce: adorano il basket e attorno all’innegabile talento, si costruiscono una tecnica sopraffina. Quelli citati, sono solo alcuni dei protagonisti di una meglio gioventù, nata e cresciuta sotto il dominio di Tito, che poi diventò colonna portante della Yugoslavia di pallacanestro, oro nel 1990 ai Mondiali di basket in Argentina. Fu una squadra davvero composta da una generazione di fenomeni, atleti in possesso di una personalità talmente straripante, da essere ancor oggi ricordata a livello planetario. La Yugoslavia rullò via uno dopo l’altro tutti gli avversari (ad eccezione di una poco rilevante sfida di primo turno contro Porto Rico). Il finale di torneo fu incandescente e sublimò le gesta di quella squadra: prima sopravanzarono gli universitari degli Stati Uniti in semifinale, poi stracciarono l’Unione Sovietica in finale, dopo averla surclassata anche nella seconda fase.

Toni Kukoc con la maglia dei Chicago Bulls e in compagnia di Michael Jordan

La vittoria della Yugoslavia al Mondiale, battendo le grandi potenze della pallacanestro, fu senza ombra di dubbio la principale causa che scatenò la voglia di rivalsa degli Stati Uniti che, due anni dopo, alle Olimpiadi di Barcellona, si presentarono con la squadra più forte mai scesa in campo: il Dream Team. La Yugoslavia del 1990 non fu certamente a quel livello sportivo, ma segnò ugualmente la storia.
La Repubblica Socialista Federale di Yugoslavia, così come molte altre dittature, aveva investito da sempre nello sport, avvalendosi di talenti fisici sopra media, rispetto ad altre nazioni dalle corporature mediamente più minute. Parallelamente aveva avviato progetti finalizzati alla creazione di scuole tecniche di assoluto valore così da presentare in innumerevoli discipline, specie in quelle di squadra, roster di eccellenza. Nel calcio, nella pallanuoto, nel basket, ma anche nella pallamano e pallavolo, la Yugoslavia era ai vertici. Queste squadre però, quasi sempre finirono per naufragare nelle rassegne più importanti a causa di talenti non funzionali alla squadra, dissidi interni e incompatibilità delle personalità presenti in spogliatoio. In termini di qualità tecniche, carattere e garra, le varie formazioni della Yugoslavia che si presentavano in campo non erano seconde a nessuno, ma furono per lo più delle incompiute. Genio e sregolatezza, si direbbe. Emergevano ricorrentemente i problemi di coesione tra anime diverse, culture, sensibilità contrapposte. Se oggi è difficile immaginare sotto la stessa bandiera Croati, Sloveni, Serbi, Macedoni e Bosniaci, lo era anche a quel tempo, nonostante il regime di Tito per un trentennio avesse imposto logiche unitarie. Il roster della Yugoslavia ai Mondiali 1990 andò oltre le differenze etniche proprio in tempi in cui Milosevic si era già affacciato nel panorama politico serbo e nelle popolazioni balcaniche stava montando l’odio. Basti pensare che proprio nel 1990 in Croazia stavano guadagnando consensi i movimenti nazionalisti e a dicembre in Slovenia si votò per un referendum a favore dell’indipendenza che raggiunse maggioranze bulgare.

Obradovic, ora nelle vesti di head coach dei turchi del Fenerbahce

In questo contesto, la Yugoslavia del 1990, guidata dall’Mvp mancino Kukoc, fu una delle favole più belle, in netta contrapposizione con il clima che si stava respirando nella nazione. In quella squadra riuscirono a coesistere alcuni atleti maturi (il già citato Obradovic su tutti, oggi uno dei migliori allenatori del pianeta), con giovani emergenti dalle qualità smisurate. Divac, Petrovic e Kukoc furono giocatori Nba da quintetto, protagonisti oltreoceano per diverse stagioni. A quel famoso 1990 arrivarono quasi coetanei e con una debordante voglia di emergere, per giunta nel loro prime di carriera. Eppure, in rosa c’erano serbi, croati, sloveni, avrebbero potuto farsi la guerra. Invece seppero fare squadra. Una delle dimostrazioni principali di come ogni atleta della Yugoslavia abbia approcciato alla manifestazione iridata la ereditiamo dalle statistiche dell’epoca. Nessun giocatore della squadra fu presente tra i primi 10 realizzatori della manifestazione, ma ben 6 atleti della stessa chiusero il Mondiale sopra gli 8 punti di media. Lo stesso Petrovic, il principale attaccante del team e uomo dall’ego smisurato, ad eccezione della semifinale chiusa con 31 punti, cercò sempre di coinvolgere i propri compagni per raggiungere il successo. Ogni atleta seppe rendersi protagonista e fu dunque una vera vittoria di squadra, magistralmente orchestrata dal coach serbo Dusan Ivkovic. Un successo basato, prima ancora che sul valore dei singoli, su rapporti di stima e amicizia non scontati. «In campo non importava la nazionalità dell’uno o dell’altro. Eravamo una grande famiglia. Eravamo fratelli», disse Divac, intervistato a distanza di anni. Il clima dell’epoca viene colto anche da una frase di Bogdan Tanjevic, allenatore italo-montenegrino e guru della pallacanestro: «È il corpo che rifiuta, che si disinnamora di questo tipo di vita, di quest’inganno, di questo tradimento. Una volta eravamo tutti fratelli e, all’improvviso, solo odio».

il tecnico Tanjevic, già allenatore della Nazionale Italiana

Come detto, la generazione dei fenomeni nel 1990 fu alla sua ultima grande recita planetaria. Sebbene gran parte di quella squadra ebbe poi il merito di aggiudicarsi anche l’oro agli Europei di Roma del 1991, nulla fu più come prima. Petrovic, il Mozart dei canestri, e Divac, Marlboro Man come venne rinominato per le sue inclinazioni ai piaceri della vita, da sempre amici fraterni e rivali in Nba, avevano litigato fin dalle premiazioni per l’oro del 1990. Alla base degli screzi, emerse in seguito, ci fu la contrapposizione nazionalistica tra Croati e Serbi. Mai seppero ricucire i loro rapporti. Nel 1991 alcuni giocatori disertarono le convocazioni, chi per non prendere posizione in una fase di conflittualità estremamente critica, chi per non giocare sotto la stessa bandiera con atleti di diversa etnia. Così la Yugoslavia cestisticamente finì nel 1990, lasciando ai tifosi il rimpianto di non aver potuto vedere alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 il dream team americano contro la mitica Yugoslavia. Da sola, la Croazia in quell’occasione riuscì ad issarsi fino all’argento. Cosa sarebbe potuto accadere se Stati Uniti e Yugoslavia unita si fossero affrontate, magari in finale? Ne sarebbe probabilmente venuta fuori la partita più avvincente di sempre.
Poco tempo dopo, in un disgraziato 7 giugno 1993, Drazen Petrovic, di ritorno da una partita in Polonia, morì a seguito di un drammatico incidente stradale. Il mondo dei canestri non fu più come prima.

Game Over.

I notiziari riportano la tragica notizia della morte di Drazen Petrovic