Che Brexit non fosse un grande affare per gli inglesi si era più o meno percepito; ma forse ce se siamo resi veramente conto soltanto leggendo su tutti i giornali della fuga annunciata dalla vita di corte di Megan e Harry, Duchi di Sussex, per poter dare una vita più serena alla propria famiglia. Non ci sono più gli inglesi di un tempo, pronti a versare lacrime e sangue! E insomma, sto pettegolezzo fa passare quasi in secondo piano la data del divorzio britannico dall’Unione Europea, l’ormai incombente 31 gennaio 2020, quando inizierà, salvo brutte sorprese, il periodo di transizione.

Dopo la travolgente vittoria di dicembre, il premier Boris Johnson ha negoziato un accordo che definisce «il più veloce e redditizio mai siglato». Pur con il grattacapo nazionalista tornato alla ribalta sia in Scozia che in Irlanda del Nord, dove sono ricominciati incidenti con la polizia e tra fazioni opposte, BoJo sente la forza delle comunità del nord dell’Inghilterra, blu Tory forse per la prima volta nella storia. Certo, il suo faccione ottimista e rubicondo si dovrà confrontare con una UE che non intende fare sconti, nel timore – espresso dal “Financial Times” – di ritrovarsi una «Singapore sul Tamigi», con Londra in deregulation selvaggia e pronta a una guerra commerciale con ampio vantaggio competitivo.

The City of London

La comunità finanziaria della City, che contribuisce da sola a un decimo del gettito fiscale complessivo e dà lavoro a oltre un milione di persone, ha più volte espresso malcontento e molte imprese hanno già ricollocato le proprie attività, per non rischiare di perdere l’accesso privilegiato ai mercati europei. Irlanda e Polonia offrono schemi di salari bassi e incentivi fiscali alle aziende multinazionali, che hanno già in gran numero traslocato le unità produttive. Le banche straniere hanno ridimensionato fortemente gli organici espatriati, concentrandosi sui nuovi hub europei (Francoforte, Parigi e Milano), seguite nell’esodo nord-sud anche da quelle locali, che fanno nuove assunzioni solo in Europa.

Il costo macroeconomico della Brexit è stato pagato finora più dagli inglesi che dall’Europa; basti pensare al disavanzo commerciale sui beni (la differenza tra import e export) passato nel 2019 da 7,4 a 144 miliardi di sterline, anche per effetto degli accumuli di magazzino tipici del periodo che precede una “guerra” seppur solo commerciale; grazie ai servizi finanziari, cioè le banche di cui sopra, questo sbilancio si riduce ma resta impressionante il salto del secondo semestre 2019, quando le importazioni complessive hanno superato l’export di ben 30 miliardi di sterline (contro il dato quasi a zero di inizio anno). Bloomberg stima che il costo di Brexit abbia già toccato i 200 miliardi di sterline, pari al 3% del PIL 2018, e prevede una crescita in forte calo nel 2019, dal +3% del 2018 al +1%.

Comunque, o come dicono loro anyways, Il popolo ha parlato, il popolo vuole andarsene e quindi let it be Brexit, che Brexit sia. L’attuale accordo sembra ben indirizzato verso la chiusura ordinata della convivenza  del Regno Unito nella UE: approvato il 9 gennaio scorso dalla House of Commons, la Camera bassa del Parlamento UK, passerà ai Lords in questi giorni, dove dovrebbe essere licenziato senza sorprese per poi fare il passaggio formale a Buckingham Palace (dove le carte si mischieranno con quelle ben più spinose della Megxit!). Giornate calde, insomma, fino alla seduta del Parlamento Europeo del 29 gennaio, che metterà davvero il doppio battente alla porta.

Ma degli inglesi, ai quali i nostri vecchi dedicavano il sonetto “se Dio i gà messi su un’isola, un motivo el ghe sarà”, tutto sommato chissene’. Hanno voluto la bicicletta e ora faranno i conti con le salite. Andiamo a vedere, nel nostro solito modo rapido e indolore, cosa succede invece per l’Italia, per noi che amiamo lo shopping londinese e la premier league, per chi vorrebbe cercarsi un lavoro nel Regno e per i 600.000 italiani che già vi lavorano. Andiamo con ordine:

  • MACROECONOMIA: nella classifica di Standard & Poor’s, che calcola l’indice di vulnerabilità dei Paesi UE alla Brexit, cioè chi ne viene maggiormente colpito, l’Italia si colloca al 19 posto su 20; in sostanza, come detto sopra, affari loro.
  • TURISMO: a partire da febbraio, salvo accordi diversi, i turisti europei dovranno munirsi di passaporto (niente di che per gli habitué del saltare la fila a Gatwick usando il microchip) e probabilmente ottenere un visto elettronico online. Quindi fastidio, prevedibili rallentamenti e qualche soldo da spendere, ma garanzia di libera circolazione.
  • LAVORO: per chi già lavora in UK, cambia poco niente. Diventerà obbligatoria per tutti la registrazione presso il Ministero degli Interni, e fortemente suggerita, anche per l’assistenza burocratica, quella al Registro degli italiani all’estero (AIRE). Ci saranno noiosi controlli a tappeto sugli stranieri residenti e in caso di perdita del lavoro “inglese” tempi massimi per procurarsene un altro, pena l’allontanamento. I futuri migranti economici italiani verso il Regno Unito, invece, dovranno dimostrare prima della partenza di avere un contratto di lavoro valido, con differenze tra prestazioni qualificate o meno: un cameriere avrà limiti brevi di permanenza e divieto di residenza, mentre un ricercatore universitario godrà di un visto per lavoro più lungo (si parla di 5 anni) e potrà chiedere la residenza. Qualche complicazione amministrativa, minor forza contrattuale per i lavoratori stranieri ma tranquillità della libera circolazione anche su questo tema.
VERDE.jpg
  • ERASMUS+: in sede di esame dell’accordo, mercoledì scorso, il Parlamento ha respinto un emendamento richiesto dall’opposizione che inseriva il tema degli scambi universitari nell’elenco dei punti negoziali. Il rifiuto ha fatto subito strillare allo scandalo, alla fine del mondo Erasmus. Ci vuole calma, e sangue freddo, all’inglese. Il ministro per l’Istruzione in un’intervista al “The Journal” definisce la questione un «gioco delle parti puramente politico, su un tema che interessa molto l’Europa ma anche noi, visto che decine di migliaia di nostri studenti partecipano ogni anno ai progetti». Molto simile appare, almeno per ora, la posizione ufficiale di Erasmus che pubblica nel suo sito alcune informazioni pratiche e in definitiva dice a tutti, partecipanti attuali e potenziali, sia nel mondo accademico che agli studenti, di continuare a godersi i programmi esistenti e a proporne di nuovi, come se nulla fosse accaduto.  

Bene, ora che tutto è più chiaro e semplice, possiamo abbandonare il nostro “Herald Tribune” e tornare a curiosare nel gossip succulento degli sguardi glaciali, i guantini norvegesi e le décolleté beige dei reali d’Inghilterra. Lasciamo gli inglesi alle loro beghe, che già ne abbiamo tante in patria di cui preoccuparci.

Bye bye, baby!

Per noi, vale il testo di una splendida canzone degli U2 (del 1983, quando erano veri) che recita «Though torn in two, we can be one. Nothing changes on new year’s day». Lo traduciamo a modo nostro in “anche se divisi in due, UE e UK restano una cosa sola. Non cambia nulla il giorno della Brexit”.