La Nazione, scriveva Ernest Renan, è un termine molto comodo, perché ciascuno ne fa ciò che vuole. «Comunità immaginata», essa è parto della Rivoluzione Francese, autentica «madre dolorosa» della Modernità, alla quale si deve l’istituzionalizzazione della maggior parte delle categorie della Politica – dal suffragio universale al concetto di cittadinanza –  oltre che la sostituzione del mito della fedeltà nazionale a quello fedeltà dinastica come evento fondativo della comunità pubblica. 

La Nazione esiste nel momento in cui un pugno di persone lo decide e cerca dimostrarlo. Essa è quindi un atto volontario, non una necessità storica. Le sue basi etniche sono talmente labili che non ne esiste una sola che sia omogenea da tale punto di vista. Lo stesso vale per le sue basi storiche. Basta sfogliare un atlante storico mondiale per rendersi conto che la geografia politica è un processo dinamico, dove nulla è stabile. La maggior parte delle Nazioni Europee non esistevano prima del 1918 e alcune di esse hanno pochi lustri di vita. La Nazione è, sempre per usare le parole di Renan, il «plebiscito di ogni giorno», ovvero è il frutto della decisione condivisa di una comunità i cui membri stabiliscono di vivere assieme. È una possibilità, non una necessità. 

Tale decisione si sostanzia su i più disparati miti fondativi. Possono essere veri e propri falsi storici, come i Canti di Ossian, che crearono il mito dell’identità Gaelica edificandolo sulla figura inventata di Ossian, presentato da Mcpherson come “l’Omero del Nord”. Oppure costruzioni sociali collettive, come il “credo americano”, nella definizione che ne dà Huntington, il quale definisce il minimo comun denominatore dell’identità nordamericana nel riconoscimento collettivo in un sistema di valori derivante dalla conoscenza della lingua e della cultura anglosassone e dall’adesione all’etica protestante anche da parte di gruppi etnici che ne sono originariamente estranei. 

Oppure, ed è il caso dell’Italia, il mito fondativo della Nazione può essere il prodotto di un’élite culturalmente egemone. Ma rispetto alla maggior parte delle Nazioni esistenti, l’Italia ha un’altra particolarità: di non essere mai riuscita a produrre una mitologia identitaria condivisa che servisse da fondamento all’idea di Nazione. Dando per acquisita l’artificialità dell’idea di Nazione italiana, nel solco delle definitive acquisizioni storiche riunite del fondamentale L’invenzione dell’talia unita di Roberto Martucci, tutta la storia politica dello Stivale dal 1861 a oggi può essere letta come il tentativo da parte delle élite del Paese di creare una mitologia nazionale nella quale il popolo potesse identificarsi. Tentativo continuamente frustrato. Si può seguire l’incerta parabola dell’idea di nazione Italiana dal “maggio radioso” del 1915 come completamento “necessario” del Risorgimento, al mito della “vittoria mutilata” del primo dopoguerra, al fascismo, il quale potrebbe essere letto come il tentativo di portare a compimento un processo di costruzione nazionale incompleto. Mussolini sapeva perfettamente che una nazione chiamata “Italia” non esisteva, e che per crearla ci sarebbe stato bisogno di uno Stato. Questo è il senso della celebre massima «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato».
Ultimo in ordine di tempo tra i miti identitari nazionali, quello della Resistenza come nuovo Risorgimento.

Rimane di tutta evidenza come nessuna delle mitologie di volta in volta proposte sia mai riuscita a conquistare gli spiriti degli abitanti della penisola. Così le élite dirigenti, non essendo riuscite a ottenere la fedeltà delle masse all’idea di Nazione italiana con la persuasione, hanno provato a comprarla con moneta sonante. Il riconoscimento identitario nazionale italiano non è stato costruito su una serie di valori condivisi fondato mitologicamente, bensì con la fidelizzazione allo Stato ottenuta mediante la mobilitazione del consenso attuata tramite politiche clientelari di redistribuzione della ricchezza e di produzione di debito.

Il “CAF” della Prima Repubblica, al centro Bettino Craxi, tra Giulio Andreotti (a destra) e Arnaldo Forlani (a sinistra)

Ecco l’autentico “peccato originale” dell’Italia, “motore immobile” di tutti i cronici malanni che la affliggono fin dalla sua nascita. Il mastodontico settore del “pubblico impiego” a tutti i livelli, da quello centrale, a quello locale, è un ammortizzatore sociale mascherato per cooptare gli strati sociali medio-bassi nell’apparato statale e fidelizzarli a esso. Una grande quota parte della sua economia è controllata in maniera diretta o indiretta dal “pubblico”, ovverosia dallo “Stato”, dai grandi conglomerati industriali (IRI, ENI ecc.) fino alle aziende multiservizi locali, passando per un immenso patrimonio immobiliare pubblico. Questo enorme settore “statale” è finanziato attraverso elevati livelli di tassazione che attuano una ridistribuzione della ricchezza privata e da un enorme debito pubblico, il terzo del pianeta, ed è utilizzato clientelarmente al fine di “nazionalizzare le masse”, per usare il titolo di un testo fondamentale di Mosse.

È ovvio che se così stanno le cose, una riforma “endogena” del sistema non sia possibile, per il semplice motivo che esso non è programmato per l’autodistruzione, bensì per l’autoconservazione.  
E allora, come direbbe Lenin, “Che fare?”