Qualche settimana fa, in occasione delle polemiche relative al caso dei cori razzisti contro Balotelli, che si sarebbero sentiti allo stadio durante la partita Verona-Brescia, surfando sui social mi sono imbattuto in una serie di commenti su Verona e i veronesi. In particolare, me ne è rimasto impresso uno, sulla bacheca di un mio contatto Facebook che, con un giudizio decisamente tranchant, descriveva Verona come una città bigotta e reazionaria. Il commento si concludeva così: «del resto cosa aspettarsi dalla città che ha dato i natali a Stevanin e dove sono avvenuti i delitti di Ludwig?».

Al di là dell’assoluta banalità di queste osservazioni, ho riflettuto soprattutto una cosa: in altre città vi sono stati delitti orrendi, Roma ha avuto la Banda della Magliana e l’omicidio del Circeo, Padova ha ospitato Franco Freda, la zona compresa tra Forlì e Cesena ha dato i natali ai membri della “Banda della Uno bianca”. Senza voler parlare degli episodi di razzismo legati alle tifoserie calcistiche, che in giro per lo Stivale non mancano di certo. Solo per la nostra città si è operata una relazione così stretta tra fatti di cronaca nera, episodi di razzismo e identità stessa della città. 

Federico Sboarina, sindaco di Verona

La domanda, quindi, è “perché proprio Verona?”. La risposta più immediata è banale: perché Verona l’esser di destra ce l’ha nel DNA. È innegabile che nella nostra città esista una sorta di relazione “crossover” tra politica, tifoseria e idee razziste; del resto già diversi anni orsono un ricercatore locale, Emanuele Del Medico, nel suo All’estrema destra del Padre, aveva indagato le relazioni esistenti a Verona tra alcuni settori della società e della politica e movimenti di estrema destra. A onor del vero va riconosciuto che mai come durante la presente Amministrazione si è operata, nel bene e nel male, una così stretta identificazione tra città e squadra di calcio, con un sindaco-tifoso, che in ogni occasione, anche ufficiale, non si lascia mai sfuggire l’opportunità di esprimersi con metafore calcistiche o di citare l’Hellas. Ma al di là di questi aspetti macchiettistici, occorre spingere un po’ più a fondo l’osservazione. 

Una parte della risposta alla nostra domanda la potremmo trovare nella contrapposizione tra “fatti” e “narrazioni” che ormai è una pietra fondante dello zeitgeist contemporaneo.

Ci sono le narrazioni: a Verona durante la partita Verona-Brescia si è avuto l’ennesimo episodio di intolleranza a sfondo razziale avente come vittima un calciatore di colore, con conseguente coda di polemiche e indignazioni a livello nazionale. Poi ci sono i fatti, come acclarati dalla giustizia: ad oggi per i cori razzisti c’è un unico indagato; un tizio, che non è neppure veronese né tantomeno tifoso dell’Hellas, fa uno sfottò a Balotelli, viene ripreso col telefonino dall’amica e il video è postato sui social. Ma ormai la narrazione riportata dai media mainstream ha iniziato a vivere di vita propria ed è divenuta una sorta di profezia che si autoavvera.

Paolo Berizzi

Le narrazioni necessitano di narratori, e uno dei più famosi tra i menestrelli nel cui repertorio è presente la sonata di Verona città razzista è Paolo Berizzi, giornalista di “Repubblica”, noto per il suo impegno in inchieste riguardanti i rigurgiti neo (o post) fascisti, e autore del recente Nazitalia. Il Berizzi a Verona ha trovato la sua personalissima miniera di uranio. Venuto in possesso di un video piuttosto datato – già pubblicato i primi di novembre da Enrico Mentana nel suo profilo Instagram – di una festa di compleanno, che si era tenuta in un locale frequentato abitualmente da tifosi dell’Hellas e nella quale pareva che si oltraggiassero le minoranze etniche, ne ha immediatamente fatto un articolo nel quale ripercorreva la narrazione di «Verona città razzista» corroborandola con tutta una serie di episodi, alcuni risalenti a di più di 20 anni orsono, dai quali usciva il ritratto impietoso della città di Giulietta come della Vandea italiana della destra razzista e intollerante, radicata all’interno della tifoseria della squadra cittadina. Questo genere di menestrelli ci fa inevitabilmente pensare a Sciascia, il quale più di 30 anni fa, parlando di «professionisti dell’antimafia», aveva messo a fuoco come l’antimafia, adoperata con abilità, potesse fornire credenziali di autorevolezza tali da non necessitare di alcuna verifica e divenire al tempo stesso strumento per fare carriera e acquisire crediti. Basta sostituire “antifascismo” ad “antimafia” e avremo una variante molto in voga del tipi di cui parlava Sciascia. 

Con cari saluti al tanto invocato fact checking, circostanza resa ancor più rimarchevole dal fatto che la narrazione di Berizzi compare proprio su di un giornale sul quale si dispensano periodicamente sermoni contro le fake news. Come dice un noto adagio, «se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti».

Un’altra parte della risposta alla domanda che ci siamo posti è da ricercare nel fatto che, a parere di chi scrive, Verona è una città fortemente polarizzata tra destra e sinistra e che senza la fattiva collaborazione di una larga parte della sua società che si riconosce come progressista lo storytelling di “Verona Nera” avrebbe stentato ad imporsi. 

Ciò in ragione del fatto che se la destra identifica nell’originario “Dio. Patria e Famiglia” la radice fondante della sua identità, la sinistra si autorappresenta in tutto quello che vi si oppone, con un procedimento in negativo. E talvolta con scarsissima lungimiranza e capacità di autocritica ­– vedi il celebre caso del professor Luis Marsiglia, l’insegnante del liceo Maffei che ormai quasi 20 anni fa denunciò di essere stato oggetto di intimidazioni razziste salvo poi ammettere di essersi inventato tutto. In mezzo vi fu una mobilitazione di massa delle forze progressiste veronesi che nella fattispecie presero una terrificante cantonata.

Lo storytelling di “Verona nera” si è imposto a livello nazionale anche grazie a una sorta di quinta colonna interna di sinistra, la quale, nell’ansia parossistica di differenziarsi dalla destra e contemporaneamente di affermare la propria identità come alternativa ad essa, ha assunto acriticamente alcune posizioni che sono poi risultate drammaticamente smentite dai fatti. Corpo del reato è l’esangue dibattito politico cittadino, polarizzato tra nostalgici del ventennio mussoliniano che si dissimulano sotto le mentite spoglie della narrazione identitario-sovranista e nostalgici della Resistenza come nuovo Risorgimento assurto al livello di mito fondativo della nazione Italiana. Insomma, tutto purché non si discuta del fastidioso principio di Realtà. Parafrasando un cantante “sovranista”, facente parte dell’ormai vasta schiera di opinionisti pop, provenienti dal mondo dell’intrattenimento, potremmo eleggere «Nostalgia, nostalgia canaglia» a nuovo “anthem” della nostra città.