The kids are back
"Who" è il nuovo disco, omonimo, della rock band britannica, dopo 13 anni di silenzio. Un lavoro che ripercorre la carriera pluridecennale di uno dei gruppi che rivoluzionò la musica contemporanea.
"Who" è il nuovo disco, omonimo, della rock band britannica, dopo 13 anni di silenzio. Un lavoro che ripercorre la carriera pluridecennale di uno dei gruppi che rivoluzionò la musica contemporanea.
Delle cinque band che rivoluzionarono la musica contemporanea, Beatles, Led Zeppelin, Velvet Underground, Rolling Stones, The Who, rimangono in attività solo gli Stones e gli Who. Questi ultimi furono in qualche modo gli “intellettuali” del gruppo. Gli alfieri del movimento “Mod” – acronimo di modernism – che con la sua cura maniacale per il look e l’interesse verso tutto ciò che era classificabile come novità si opponevano, anche fisicamente, ai “Rockers” in risse che divennero leggendarie nell’Inghilterra degli anni Sessanta. Pertanto l’uscita di Who, il loro nuovo lavoro originale, a più di 50 anni dalla fondazione della band, è un evento eccezionale.
Diciamolo subito e francamente che questo non è un disco degli Who, perché loro di fatto non esistono più da decenni. Hanno iniziato a morire il 7 settembre 1978, quando per abuso di psicofarmaci e alcol si spense nel sonno Keith Moon il genialoide, funambolico e autodistruttivo batterista della band che è stato classificato il secondo miglior batterista di tutti i tempi dietro a John Bonham (pure lui, guarda caso, morto in conseguenza di abusi). E hanno esalato l’ultimo respiro il 27 giugno 2002, quando alla viglia della partenza di un tour della band, in una camera d’albergo a Las Vegas morì a seguito di una vita sregolata e di una salute malferma John “thunderfingers” Entwistle, probabilmente il più grande bassista rock di tutti i tempi, che deve il suo soprannome (“dita tonanti”) alla tecnica peculiare che utilizzava per suonare il suo strumento, del quale percuoteva le corde con le dita. Sono sopravvissuti Roger Daltrey, una delle voci più potenti del rock e Pete Townshend, l’autore di quasi tutta la musica della band e chitarrista, uno dei più grandi compositori contemporanei, ma scomparsa l’eccezionale e insostituibile sezione ritmica è impossibile parlare di Who dopo il 2002, tanto l’approccio virtuosistico che Keith Moon e John Entwistle avevano con i loro strumenti era fondamentale nello sviluppo dei brani della band.
L’eccezionalità del gruppo, oltre che nella furia pirotecnica dei loro show, dove Moon e Townshend sfasciavano i loro strumenti, e nell’originalità compositiva di Townshend, risiede(va) anche nel peculiare sound: i componenti utilizzavano tutti i loro strumenti con un approccio melodico. Entwistle suonava il basso come una chitarra solista, scambiandosi e incrociandosi in continuazione con Townshend nelle parti di assolo, mentre il drumming anarchico di Moon (che non sapeva leggere uno spartito musicale) stendeva un rutilante tappeto armonico su cui si srotolava il sound della band. Moon e Entwistle furono nel tempo sostituiti da fior di professionisti, tra i quali Zack Stalkley che contrariamente al padre la batteria la sa suonare davvero e quel Pino Palladino al basso collaboratore praticamente di tutti i più impostanti musicisti contemporanei, ma l’alchimia della band era irripetibile, tanto erano gigantesche le personalità musicali e le doti tecniche dei suoi membri originali.
Allora siamo di fronte a un’operazione nostalgia dettata da motivi meramente commerciali? Ebbene no, e chi scrive può testimoniarlo di persona, avendo visto gli Who (dimezzati) dal vivo in Arena nel giugno del 2007, quando Roger Daltrey sotto una pioggia torrenziale al quarto brano (Behind Blue Eyes) perse la voce per l’umidità e Pete Townshend per non deludere il pubblico che se ne era rimasto fremente sotto il diluvio universale cambiò in corsa la scaletta del concerto inserendo brani cantati da lui per sopperire all’afonia di Daltery e prendendo in mano lo show. Daltrey alla fine del concerto eroicamente si esibì nel grido finale di Won’t get fooled again mettendo a rischio la prosecuzione del tour. I mercenari non fanno di queste cose.
Allora perché interessarsi del nuovo disco, che segue, 13 anni dopo, Endless Wire? In primo luogo perché, semplicemente, è un disco di ottime canzoni. Non sarà il loro lavoro migliore da Quadrophenia, come Daltrey ha temerariamente affermato, ma il livello generale del disco è mediamente assai elevato. Townshend ha ancora una vivace vena compositiva e Daltrey è sempre l’alchimista che interpreta le sue canzoni, come lui stesso si è definito. Ball and Chain è un solido pezzo rock nella cui intro la band si autocita evocando passaggi sonori che potrebbero provenire da Quadrophenia. Detour è un’ironica canzone autobiografica. Il primo nome della band infatti era Detours. I don’t wanna be wise è il seguito ideale, 54 anni dopo, della celeberrima My Generation, la canzone dove Daltery cantava I hope I die before I get old. Ora, con mezzo gruppo morto, i ragazzacci del mod proclamano che non vogliono diventare saggi. E Townshend cinicamente, magari senza crederci troppo, considera che «All the shit that we did / Brought us some money, I guess».
Hero ground zero è un pezzo potente e intenso in cui gli archi si amalgamano perfettamente con il drumming potente di Starkley, che ti rimane attaccato addosso al primo ascolto e nell’intro fa l’ennesima autocitazione, richiamando il movimento spiraliforme dei sintetizzatori di Baba O’Riely, forse il brano Rock più saccheggiato da epigoni e imitatori di tutti i tempi. Non ne siete convinti? Allora ascoltatelo, lasciandovi trasportare dall’andamento sinuoso dei sintetizzatori con cui si apre (la canzone è una delle prime se non la prima in assoluto ove questo strumento è stato utilizzato), fino allo stacco degli accordi di pianoforte che introduce l’esplosione del drumming di Moon e il grido di Daltrey («Out here in the fields / I fight for my meals…») e poi passate in rassegna nel vostro personale archivio tutti i pezzi che ci assomigliano e/o lo copiano. Break the news ha un arpeggio che ti trascina via e denota una fluidità compositiva che musicisti molto più giovani e osannati di Townshend non si sognano nemmeno. Sotto il clapping che lo ritma fa l’occhiolino qua e là il motivo dell’intro di Baba O’Riely. Tutte queste autocitazioni vi fanno pensare a un lavoro troppo autoreferenziale? Beh… qualsiasi musicista che nella sua carriera abbia prodotto autentici monumenti musicali come Tommy, la più importante opera rock di tutti i tempi, Quadrophenia o Who’s next si può permettere il lusso dell’autocitazione. E qui trovano il limite e allo stesso tempo il motivo più importante per il quale un appassionato di musica contemporanea dovrebbe ascoltare The Who.
Aspettarsi dall’ultimo lavoro di Townshend e Daltery la medesima qualità dei dischi che abbiamo citato è vano. Se non per il fatto che alla band manca per sempre il fondamentale apporto di Moon e Entwistle. Chi potrebbe dire che sarebbero le ottime canzoni che ancor oggi scrive Townshend con le pirotecniche rullate di Moon the Loom o con le linee armoniche del basso di “the OX” (il soprannome di Entwistle). Ma, e qui viene l’ulteriore motivo di interesse, il disco con le sue sfumature e citazioni della storica produzione precedente della band può essere una validissima suggestione a ripercorrere a ritroso la carriera pluridecennale degli Who, alla scoperta di dischi e canzoni che hanno cambiato il nostro modo di ascoltare la musica. The kids are back e sono (ancora) piuttosto in forma.