È arrivata nel capoluogo catalano quindici anni fa per la sua tesi dottorale sul nazionalismo catalano e oggi non nasconde la sua preoccupazione per come la società stia rapidamente cambiando in questi ultimi anni. Laura Cervi è politologa e insegna Comunicazione politica al dipartimento di giornalismo dell’università Autonoma di Barcellona. Nel raccontare al nostro giornale quanto sia accesa la questione indipendentista, a ridosso delle imminenti elezioni spagnole, afferma che «ormai è netta la frattura tra le persone. Se è vero che la violenza degli scontri è stata solo circoscritta e che Barcellona continua ad essere un luogo vivibile, è altrettanto chiaro che ci sono famiglie in crisi per ragioni politiche, non ci si parla più perché la tensione è tanta».

Il 10 novembre, giorno in cui si voterà per il rinnovo dei due rami del parlamento spagnolo, è l’ultimo di una lunga serie di tentativi di formare un governo: quattro le elezioni in altrettanti anni, ma soprattutto questa sarà la seconda volta nel 2019, dato che il 28 aprile scorso non ne è derivata alcuna maggioranza. Se quindi la campagna elettorale non è mai finita, al centro dello scontro politico non sono le urgenze del Paese ma la separazione di Barcellona da Madrid.

Dal referendum del 2017 e la dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte del governo catalano, avvenuta poche settimane dopo, progressivamente alle manifestazioni pacifiche si sono affiancate proteste violente. Che direzione sta prendendo la tensione sociale?

«Per fare chiarezza su cosa stia accadendo, è bene ricordare che il pensiero nazionalista catalano nasce un secolo fa con la rivoluzione industriale e con la trasformazione di questa regione in uno dei fulcri nevralgici dell’economia iberica. Quando Barcellona diventa una città fiorente, diversi industriali finanziano degli intellettuali per creare le basi di una nazionalità catalana, tanto che risale all’inizio del Novecento la normalizzazione del catalano come lingua. Ma la dittatura di Francisco Franco ha, come scrisse Manuel Vázquez Montalbán, “impedito ai catalani di essere franchisti nella loro lingua”. Il crollo del dominio franchista ha portato poi alla costituzione del 1978 e all’ascesa di Convergenza e Unione, il partito che meglio esprimeva le aspirazioni della borghesia catalana: liberismo economico e maggiore autonomia da Madrid, soprattutto per pagare meno tasse, sono stati i cardini di più di vent’anni di egemonia. Anche la sinistra repubblicana, Esquerra republicana, nel 1992, dopo anni di continue sconfitte, ha scelto di puntare sul tema autonomista, ma per distinguersi dalle posizioni catalaniste si inventa la parola “indipendentismo”. In poco tempo è così passata dall’otto al diciotto per cento e da qui inizia tutto.»      

Ci sono stati anche fattori esterni alla politica che hanno influito nell’ascesa del catalanismo?

«Lo scoppio della bolla immobiliare con la crisi economica mondiale del 2008 ha accelerato dei processi già in corso. Due anni prima la popolazione catalana aveva approvato tramite referendum un nuovo statuto che avrebbe dovuto rafforzare l’autogoverno, ma il Partito popolare spagnolo ricorse al tribunale costituzionale e fece cadere questa proposta. Fu inevitabile la delusione nei confronti della Spagna. Però la politica ha saputo fare di questa richiesta una leva potentissima, per distrarre l’opinione pubblica da una serie di scandali per corruzione del partito maggioritario, Convergenza e Unione, proprio mentre Artur Mas era al governo della Catalogna. Gli elettori hanno quindi incolpato Zapatero per la crisi economica, e riversato nel progetto indipendentista tutte le speranze di rinascita. Prima delle elezioni del 2015, la coalizione di maggioranza ha quindi perso il sostegno di Unione democratica di Catalogna, che non condivideva l’idea del referendum, e il partito di Mas, Convergenza democratica, ha formato una lista insieme ad alcuni partiti di sinistra come Esquerra republicana. Iniziano così i primi eventi simbolici di piazza fino al 1 ottobre 2017, data del referendum sull’indipendenza, e dopo due settimane la sentenza della corte costituzionale, con cui la legge regionale che ha istituito il referendum è stata dichiarata nulla. Dieci giorni dopo, il parlamento catalano ha approvato una risoluzione in cui dichiarava la nascita di “una repubblica indipendente, sovrana e democratica”. La reazione di Madrid è stato applicare l’articolo 155 della Costituzione, commissariando la regione e arrivando alla condanna di cento anni di carcere ai leader politici catalani che hanno proclamato la secessione dalla Spagna. Una sentenza che è stata benzina sulla rivolta sociale.»

Dobbiamo aspettarci un’escalation di violenza da qui alle elezioni? O che lo scenario si trasformi in un conflitto simile all’Irlanda?

«Non farei questo paragone, sono contesti molto diversi. Innanzitutto perché l’Irlanda è un territorio a sé, mentre la Catalogna è una regione territorialmente integrata nella geografia spagnola. Nemmeno ci sono similitudini con il terrorismo basco. Sinceramente non so se ci saranno inasprimenti di violenza, di certo i media hanno reso glamour la violenza catalana. In realtà si continua a girare tranquillamente per le strade, ci sono stati sì dei feriti ma la stampa ne ha ingigantito la gravità e la diffusione.»

Quanto si può dire che le proteste nascano dal basso?

«Non credo proprio che siamo di fronte a questo fenomeno, dato che i conflitti fanno chiaramente il gioco di una specifica agenda politica. L’alleanza da parte dello schieramento pro indipendenza con i Comitati di Difesa per la Repubblica serve come supporto propagandistico, che per ora accetta anche l’infiltrazione dei soliti black bloc. Non dimentichiamo che dopo l’autoproclamazione di indipendenza, le elezioni hanno visto fiorire un partito fatto di giovani anarchici indipendentisti, una definizione che ne contiene tutta la contraddizione, al cui interno si innestato questi Cdr, di fatto usati come braccio violento delle manifestazioni. Lo stesso presidente in carica adesso, Quim Torra, ha anche elogiato le azioni di disturbo dei Cdr e li ha invitati a continuare. E sempre Torra se parla di violenza, intende soprattutto quella esercitata dalla polizia.»   

Si può fare un identikit di chi prende parte ai CDR?

«Sono giovanissimi, tanti sono minorenni. Sono uniti da una visione politica confusa: si definiscono anarchici che sognano una repubblica socialista indipendente, mentre stanno difendendo una regione presieduta da un partito corrotto e apertamente neoliberal. C’è pure una minoranza della sinistra antagonista che mira all’isolamento anche dall’Unione europea e non accetta alcuna contrattazione con Madrid.»

Ci sono infiltrazioni da parte di altre organizzazioni esterne alla Spagna? «Non so dare una risposta certa. So però che il sostegno alle proteste non è improvvisato, basti pensare che le manifestazioni si organizzano tramite un’app, Tsunami democratic, grazie alla quale si é sono bloccato l’ aeroporo. Non si sa bene chi ci sia dietro a questo progetto.» (Il 30 ottobre il servizio di hosting GitHub ha bloccato l’accesso a Tsunami Democratic su richiesta della polizia spagnola, come riporta la BBC https://www.bbc.com/news/technology-50232902 in quanto ritenuta dal governo di Madrid “un’organizzazione criminale”, ndr.)

I cittadini catalani non separatisti che peso hanno nel dibattito?

«In Catalogna oggi vivono in una spirale di silenzio. Dal 1981 con il ripristino del catalano nelle scuole post dittatura franchista, ma soprattutto con la riscrittura dei programmi scolastici, ci si è garantiti quattro generazioni di votanti che pensano a una Spagna conquistatrice, basandosi su nozioni storiche false. Oggi parlare catalano, secondo una certa visione, è sinonimo di una mentalità aperta, rispettosa delle culture altrui, mentre lo spagnolo è la lingua dei filo-franchisti. Questa polarizzazione ha messo all’angolo quei catalani che non condividono la politica indipendentista. E il fallimento della politica corrisponde all’ascesa di partitini come Ciudadanos, nato nel 2005 proprio con il fine dell’indipendentismo, e, nel resto della Spagna, di Vox, di estrema destra, anch’esso populista e che vorrebbe mandare i carri armati a Barcellona.»

Il tema dell’indipendenza fiscale è passato in secondo piano?

«Il catalanismo di per sé è questo: pagare meno tasse. Però c’è pure interesse a restare in Spagna, dato che il resto del Paese è il primo mercato per i prodotti catalani. Ma quando nutri un mostro non sai mai quali siano le conseguenze: oggi sono aumentati l’intolleranza e il fanatismo soprattutto dei giovani. Credono che una futura repubblica catalana, ricca e borghese, farà una grande politica sociale. In realtà, sono e restano borghesi nei loro obiettivi, nemmeno tanto chiari a loro stessi.» 

Cosa aspettarsi dal 10 novembre?

«Il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez ha tutto da perdere: se applica la mano pesante sulla Catalogna apre la porta alla violenza della polizia, se non risponde alle proteste regala voti al Partido Popular che vuole la repressione. Ricordo però che il potere esecutivo può concedere l’amnistia per i destinatari degli oltre cento anni di carcere e potrebbe giocare questa possibilità in cambio del dialogo. Già Esquerra republicana ha cambiato tono e comincia ad aprirsi al confronto. Gli elettori spagnoli sono spinti solo dall’emotività e voteranno soprattutto il partito popolare, che però se non otterrà la maggioranza assoluta potrebbe allearsi a una crescente Vox, e allora l’evoluzione potrebbe diventare incendiaria. Non sono molto ottimista rispetto a ciò che nascerà da queste elezioni.»

Che peso ha l’antieuropeismo nel diffondersi di questo indipendentismo?

«Non c’è sovrapposizione tra i due fenomeni: piccole frange vorrebbero la totale separazione anche dall’UE, ma i catalani sono filo-europei. Gli indipendentisti non hanno però fatto i conti con il fatto che, se nella più utopistica delle ipotesi il loro progetto andasse in porto, la Catalogna diverrebbe uno Stato a tutti gli effetti e dovrebbe chiedere l’ammissione all’Unione europea, la quale deve pronunciarsi all’unanimità. Dall’altro lato, vediamo che l’Europa ha chiaramente rimandato al mittente il problema, dicendo che la questione catalana è un problema esclusivamente della Spagna. Resta sullo sfondo il problema principale, ovvero la transizione democratica di un Paese che per decenni ha vissuto sotto una dittatura e, per non fare i conti con la storia, ha nascosto tutto sotto al tappeto.»

C’è un rigurgito fascista all’orizzonte?

«Mi pare che non se ne sia mai andato, da quarantacinque anni a questa parte. C’è un grande problema di identità nazionale, se si sventola la bandiera spagnola si viene tacciati di essere d’estrema destra. Dire “viva España” corrisponde a riesumare il fantasma di Franco, così da un lato si sta rafforzando un’estrema destra libera di dire cose terribili, dall’altro c’è una certa Catalogna che si pensa migliore del resto del Paese. Barcellona guarda Madrid con disprezzo, come simbolo dell’arretratezza e del ritorno al fascismo.

La scissione ideologica quindi ha radici profonde nella Storia…

«Basti dire che Francisco Franco è morto serenamente nel suo letto. Eppure la Spagna è, dopo la Cambogia, il Paese con il più alto numero di fosse comuni con desaparecidos, e la sua guerra civile è stata tra le più fratricide e meno studiate. Ancora oggi ci sono migliaia di salme da riconoscere. Quello che è cambiato in questi anni è la perdita di fortuna politica da parte del partito socialista in Catalogna, che è stata a lungo grande bacino di voti per questo schieramento. Resta di fatto oggi una frattura profondissima in nome di una fantomatica secessione. Da questo punto di vista è una tragedia sociale.»