«Mi chiedevo cosa abbiamo in comune io e Fausto (Biloslavo nda): ci accomuna il fatto di essere convinti che le cose si debbano raccontare andandole a vedere da vicino e senza nessun rispetto per il conformismo, la correttezza politica e l’uniformità che caratterizzano oggi gran parte del giornalismo mainstream

Toni Capuozzo va dritto al sodo, senza fronzoli, abituato a raccontare verità spesso scomode, di una realtà vissuta sul campo, con il suono delle bombe in sottofondo. Assieme al collega Fausto Biloslavo è stato ospite giovedì scorso al Circolo Ufficiali di Castelvecchio per un incontro, patrocinato dal Comune e organizzato dall’associazione Nomos. A fare “gli onori di casa” è stata la giornalista del “L’Arena” Alessandra Vaccari, che ha moderato la serata. Si è parlato di Islam, Saddam Hussein, della Libia di Gheddafi, di migranti e di integrazione, le stesse tematiche raccontate nei libri Libia Kaput La culla del terrore, due volumi editi da Signs Books con illustrazioni a fumetti e fotografie, firmati rispettivamente da Biloslavo e Capuozzo. 

Il libro di Biloslavo racconta gli ultimi mesi prima della caduta di Gheddafi e le conseguenze che ne sono derivate non solo nei Paesi limitrofi ma anche in Europa: «Dopo il Colonnello la Libia è sprofondata nel caos. Sono stato numerose volte in quei territori – ha raccontato il giornalista ­–. L’ultima volta ad aprile quando la Nazione africana è ricaduta in una situazione ancora più penosa: è in corso una guerra tra le truppe del generale Haftar, che controllano metà del Paese, cioè la Cirenaica, e Serraj, soprannominato “sindaco di Tripoli” per il suo scarso potere, ma Capo del Governo riconosciuto dalle Nazioni Unite e appoggiato fortemente dall’Italia. Un amico di Misurata, che ha partecipato alla rivolta contro il Colonnello, adesso più che pentito è amareggiato, mi ha detto: “Una volta c’era un solo un dittatore, oggi ce ne sono 6 milioni: chiunque imbracci un’arma pensa di poter governare”. L’Italia è presente con una missione di supporto nell’ospedale militare e con una nave nel porto di Tripoli per contrastare l’immigrazione clandestina. Sono entrato nei centri di detenzione ufficiali di cui tanto si parla e che sono controllati dal Governo libico. Non sono hotel cinque stelle ma non sono nemmeno le prigioni dei trafficanti dove i migrati vengono uccisi e bruciati vivi. I centri di detenzione ufficiali in questo momento contengono 5.000 persone, ma il numero dei migranti in Libia, al di fuori di questi centri, in mano ai trafficanti è di oltre 500mila. In questi centri ufficiali ho dovuto trovare con il lanternino il vero profugo di guerra. Siriani ed Afghani non ci sono. Una ragazza del Gambia mi ha detto una volta: “Non scappo dalla guerra ma dalla povertà. Mi hanno detto di andare in Italia dove ci danno un tetto e vestiti”. Con Gheddafi la migrazione si manteneva sotto controllo». 

Poi ha spiegato quello che lui definisce il “grande inganno della disinformazione”: «Nel 2011 tutti ci siamo un po’ innamorati delle cosiddette Primavere Arabe, che però si sono trasformate in gelidi e sanguinosi inverni. In Libia giornalisti e politici hanno creduto a questo “cambiamento” basandosi nella maggior parte dei casi su notizie false e tendenziose. Per farvi un esempio, ero arrivato in Libia all’inizio della rivolta contro Gheddafi. Qualche giorno dopo tutti i giornali italiani e internazionali titolarono: “Fosse comuni a Tajoura”. Io corsi lì e mi resi subito conto che si trattava di un semplice cimitero. Certamente c’era la volontà di cambiare un regime. Gheddafi non era né Hitler né Stalin e nemmeno Saddam Hussein, che ha massacrato letteralmente il suo popolo. Il Colonnello era certamente una figura autoritaria, come molti personaggi delle famiglie arabe che hanno dominato i propri Paesi. In tanti ora dicono che si stava meglio con lui – ha proseguito –. Questo cosa significa? Che oramai le guerre di oggi non si combattano con le armi ma con la disinformazione. E credo che la scelta di abbattere il regime libico sia stato l’errore più clamoroso che l’Italia, l’Europa e la Comunità internazionale abbiano fatto. Perché ci siamo attirati addosso un’enorme mole di problemi».

Fausto Biloslavo con Gheddafi

«Gheddafi è uno dei quei personaggi che non dimenticherò mai – ha concluso Biloslavo raccontando la figura del Colonnello e delle sue previsioni sulla bomba migranti che si sono poi rivelate tutte attendibili –. Alla vigilia dei bombardamenti della Nato l’ho incontrato nella sua classica tenda verde da beduini, che portava anche in giro per l’Europa, nella roccaforte al centro di Tripoli. L’ho aspettato per cinque ore. Quando finalmente si presentò mi predisse quello che sarebbe accaduto. “Voi siete sicuri di bombardarmi? Se crollo io si apre la porta della Libia e c’è un milione di africani che si riverserà sull’Europa” – ne sono arrivati 700mila –, poi ha continuato: “Voi Italiani che con l’Eni avete stipulato un contratto quarantennale sullo sfruttamento off shore nel bacino di Sirte delle risorse energetiche, volete perdere tutto questo?” – abbiamo perso tutto. Siamo rimasti solo nella piccola enclave di Melita dove i miliziani ogni tanto interrompono l’erogazione di gas e noi dobbiamo pagare dei riscatti per rifarla partire –. Infine: “Volete che i terroristi arrivino davanti a casa vostra sulle coste del Mediterraneo? – nessuno poteva crederci, ma pochi anni dopo la sua morte lo Stato Islamico ha occupato proprio Sirte, la sua città natale, proclamata capitale della provincia libica del Califfato, e i miliziani di Misurata appoggiati da noi, con i Caccia americani e inglesi, ci hanno messo 9 mesi di dura guerra per limitare l’espansione. Quando poi gli chiesi dei leader che volevano bombardarlo, riguardo a Berlusconi si mise una mano sul cuore dicendo che era un amico che lo aveva tradito e che sperava che portasse qualche soluzione dell’ultima ora; quando invece nominai l’allora presidente della Francia Sarkozy, il Colonnello si irrigidì, non rispose e si avvicinò ancora di più al sottoscritto picchiettandosi la tempia con il dito, come a dire “è pazzo”. Anni dopo si scoprì che Gheddafi aveva finanziato la campagna elettorale di Sarkozy».

La culla del terrore invece descrive la caduta di Saddam Hussein e di come l’odio in nome di Allah sia diventato Stato. Ma prima di analizzare le vicende in Iraq, Capuozzo ha voluto togliersi un sassolino dalla scarpa ricollegandosi alla notizia della condanna in sede civile, da parte della Corte di Cassazione, del generale Bruno Stano, all’epoca comandante della base militare di Nassiriya, che dovrà rifondere le famiglie delle vittime dell’attentato in cui persero la vita 28 persone di cui 19 italiani, reo di aver sottovalutato il pericolo in cui si trovavano i militari all’intero della caserma: «Come succede spesso, finito il tempo dello shock, delle emozioni, delle commozioni, dei discorsi retorici, delle medaglie, è arrivato il tempo dei processi – ha spiegato –. In sede penale chi era imputato è stato assolto, in sede civile per l’ottusità giudiziaria tutta italiana viene ora condannato a risarcire. Capisco che i soldi possano servire alle famiglie delle vittime in situazioni in cui la vita va ricostruita. Ciò che non capisco è che la responsabilità venga attribuita a un generale che era lì da un mese per delle scelte solo politiche. Scelte di un Paese che in quegli anni, durante il Governo Berlusconi, si arenava nel dibattito tra missioni di guerra e missioni di pace, come se le missioni di pace si andassero a fare in luoghi assolutamente pacifici e non dove la pace è minacciata. Però quel dibattito pesò tanto da non far partire gli elicotteri Mangusta, da non votare il contingente di carrarmati e perfino di lanciarazzi unici in grado di fermare quel camion di esplosivo, perché ci si illudeva di fare una missione con i biscotti in una tasca e le caramelle nell’altra, salvo poi scoprire che si mandano uomini in situazioni dove si può morire e qualche volta si deve anche uccidere. Con l’attentato, improvvisamente quel comandante si è sentito solo, ha perso i suoi compagni, e oltre alla responsabilità che si è addossato umanamente se ne aggiunge ora un’altra, in sede giudiziale, di cui non ha colpa». 

Poi ha spostato la sua riflessione sull’Islam: «Il fondamentalismo islamico è nato dopo l’invasione americana a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle. Saddam Hussein era un dittatore feroce, che aveva inventato il patibolo in serie in quel carcere, che poi diventerà teatro delle vergogne da parte degli Americani nei confronti dei detenuti. Si è scoperto fondamentalista negli ultimi mesi del suo regime e non aveva a che fare con l’11 settembre. Anche se non sono state trovate, le armi chimiche le aveva usate per sterminare i Curdi, ma non era un pericolo per l’Occidente, era sicuramente un pericolo per il suo popolo. Amo gli Stati Uniti ma non ho mai condiviso le politiche di appoggio ai colpi di stato e di esportazione della democrazia. Entrambe fallimentari. Già la nostra democrazia funziona male, non possiamo esportarla e soprattutto, ogni popolo deve trovarla con i suoi tempi. L’Occidente ha fatto molti sbagli e il più grave è quello di considerare il terrorismo islamico come figlio dei propri errori. Non si vuole guardare in faccia la realtà, cioè di un terrorismo che è una forma dell’Islam, non l’unica per fortuna. Una cosa, però, dobbiamo aver chiara: esiste una presenza silenziosa e pacifica ma aggressiva in Italia che porta avanti i valori dell’Islam. In questo Paese da Alice del Paese delle Meraviglie, convinto che si vada in Iraq a fare la marcia longa della pace e che l’integrazione sia una cosa semplice e che casomai il pericolo siamo noi stessi che siamo razzisti, ci si deve rendere conto che l’Islam non è arrivato a quello a cui noi dopo secoli siamo giunti dopo secoli di evoluzione sociale e politica: la separazione tra Chiesa e Stato. La sfera religiosa ha tutto il diritto di dire la sua sulle leggi che riguardano la morale ma resta un convincimento individuale, parte dello scenario e non ha nulla a che vedere con la natura dello Stato. Loro a questa separazione probabilmente non arriveranno mai, ma anzi negli ultimi trent’anni sono per certi peggiorati. Il fondamentalismo è questo. Chiedete anche all’islamico più moderato se l’Europa dovrà essere islamica un giorno. Vi risponderà convinto che dovrà esserlo per il nostro bene. E con il loro incremento demografico lo sarà. Il problema riguarda tutti noi, anche quelli che non hanno mai sentito il rumore di un’esplosione». 

Toni Capuozzo a Baghdad, davanti all’hotel Palestine, l’albergo che ospitava la stampa

«L’Italia ha l’arroganza di arrivare dove non sono riusciti Paesi con un passato di colonialismo come Gran Bretagna, Francia, Olanda: l’integrazione – ha concluso Capuozzo –. Improvvisamente noi abbiamo la bacchetta magica. Che il problema vada governato e affrontato è evidente anche solo guardando i trend demografici: la Nigeria nel 2050 avrà raddoppiato la popolazione. Chi ci sarà sorriderà guardando l’innocenza e la stupidità degli anni che stiamo vivendo. Noi pensiamo di risolvere i problemi dell’Africa. Ci siamo convinti che in Africa i disperati abbiano 4-5.000 dollari per pagarsi il viaggio. Certo, non bisogna mai perdere il senso di umanità e di solidarietà. Ho visto un migrante che raccontava le proprie traversie finché metteva in carica il suo telefonino. Mi è capitato spesso di parlare con gli extracomunitari che arrivano sui barconi e loro ti dicono la verità: oltre il 90 per cento di loro è un migrante economico. Non è un reato esserlo. Sanno anche che per passare devono dire che vengono da zone di guerra. Ma bisogna rispettare le regole. Io penso che il razzismo sia una brutta bestia e ognuno di noi deve tenere a bada la diffidenza nei confronti dell’altro. Bisogna raccontare il mondo per quello che è e non per quello che si vorrebbe. Si ha la convinzione che tutti quanti siano qui in cerca di un futuro migliore e questo futuro dovrebbe essere in grado di creare integrazione. Ma ci sono dei diritti non negoziabili: della donna, dei minori, della laicità dello stato, di credere o di non credere e di passare da una religione all’altra. Tutti diritti che l’Islam non contempla. Non credo nella parola invasione, ma nello sfarinamento della nostra identità, della nostra cultura. Per me questa è ipocrisia dell’accoglienza: quando si aprono le porte ma non c’è sostenibilità sul numero e poi ci si lava le mani su quel che succederà.»

Una serata di riflessione, insomma, sulla difficile situazione che l’Europa e soprattutto il nostro Paese stanno vivendo. Un focus da chi ha potuto vivere sul campo la realtà su alcuni degli Stati, non poi così distanti da noi, martoriati dalle guerre, in quest’epoca di cambiamento in cui non abbiamo ancora trovato gli strumenti per capire se l’integrazione sia possibile e come far fronte ai problemi della migrazione.