Come ormai da consuetudine, anche quest’anno l’Università degli studi di Verona propone la rassegna estiva CinemAteneo, giunta alla quinta edizione, che questa volta avrà come tema principale “Il reale e il suo doppio, ibridazione tra documentario e finzione nel cinema contemporaneo”.

Dal 24 al 26 Giugno alle ore 21, presso il prato antistante la mensa del Polo Zanotto, sono in programmazione tre lungometraggi ad ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Lunedì 24 giugno ore 21
Nanni Moretti: “Santiago, Italia”, 2018
introduce Gianluca Solla docente di Filosofia teoretica

martedì 25 giugno ore 21
Roberto Minervini: “Louisiana (The other side)”, 2015
Introduce Tommaso Tuppini, docente di Filosofia teoretica

mercoledì 26 giugno ore 21
Werner Herzog: “Dentro l’Inferno”, 2016
Introduce Riccardo Panattoni, docente di Filosofia morale

Il coordinatore scientifico dell’iniziativa è Alberto Scandola, docente di Storia e critica del cinema presso l’Ateneo scaligero, a cui abbiamo rivolto alcune domande.

Il professor Alberto Scandola

Scandola, perché la scelta di dedicare una mini rassegna ad un genere che solitamente viene relegato ad un ruolo marginale nella cinematografia contemporanea?

«La questione è molto complessa, perché la ‘competizione’ tra documentario e finzione è uno dei nervi più scoperti della storia e soprattutto della teoria del cinema. Come tutti sappiamo il cinema, con i Lumière, nasce come finestra sul mondo e quando il linguaggio cinematografico si è rinnovato lo ha fatto sempre a partire da un forte sentimento di attrazione per il reale (penso al neorealismo o alla Nouvelle Vague). Mezzo secolo fa Lindsay Anderson, forse uno dei massimi rappresentanti del Free Cinema, diceva che il documentario avrebbe dovuto essere “una delle forme di spettacolo più eccitanti e stimolanti”. E invece l’industria, e il pubblico, hanno deciso diversamente. Credo però che la frontiera tra questi due “generi” non abbia più senso oggi e che sarebbe più giusto parlare – per i tre film in programma – di cinema del reale, ovvero di un cinema che cerca di testimoniare una verità ricucendo la frattura tra il mondo e il soggetto, e per soggetto intendo sia il cineasta che lo spettatore.»

Esiste un leitmotiv che unisce la scelta delle tre proiezioni?

«Tutti e tre i film sono ancorati a uno spazio, a un luogo, tanto geografico (la Louisiana, il Cile, l’Islanda, la Patagonia) quanto affettivo e soprattutto politico: rievocando l’accoglienza che l’Italia riservò ai profughi cileni Moretti ci invita a riflettere sui mali del nostro tempo e del nostro Paese. Parlare di ieri per parlare di oggi. Quanto a Minervini, la sua Louisiana non è solo un paesaggio di strabiliante bellezza naturale: è anche e soprattutto il luogo dove vengono confinati i negletti, i perdenti, gli emarginati, le vittime di un Potere (penso ai reduci del Vietnam) in cui più nessuno crede o spera. Il viaggio di Herzog nei misteri dei vulcani, infine, è occasione per un affascinante detour in uno dei paesi più militarizzati e infiammabili del globo, la Corea del Nord. Se un filo rosso esiste tra i film in programma, questo è senza dubbio nel coefficiente politico presente nello sguardo dei tre cineasti.»

Perché la decisione di far introdurre i tre lungometraggi da docenti di filosofia?

«Perché, come dice Jacques Aumont, le immagini pensano e un film produce pensiero tanto quanto un saggio o un romanzo filosofico. Ci sono cineasti, e penso a Godard, la cui opera ha uno spessore filosofico equivalente se non superiore a un trattato di un filosofo ‘cartaceo’. I colleghi che ho invitato, Gianluca Solla, Riccardo Panattoni e Tommaso Tuppini, si occupano, ciascuno secondo le proprie linee di ricerca, anche di problemi inerenti all’immagine (sia fissa che mobile). E lo fanno tutti in modo egregio. Gianluca Solla ha scritto un libro su Buster Keaton, Riccardo Panattoni un saggio sulla fotografia e sugli anacronismi dello sguardo, mentre il nome di Tommaso Tuppini ricorre spesso tra le firme di FataMorgana Web, rivista di cinema (e non solo) alla quale anch’io collaboro. Credo poi che sia giusto cercare di superare non solo le frontiere tra documentario e finzione, ma anche quelle tra saperi e competenze diverse.»

Il documentario ci appare spesso in lotta tra il tentativo di mettere in scena la realtà e lo sguardo soggettivo del documentarista? Qual’è sua vera natura?

«Direi che la sua vera natura risiede proprio nel compromesso tra la forza dell’immagine non rielaborata (e dunque nuda) e la debolezza dello sguardo dell’operatore, che per forza di cose è limitato al suo punto di vista. Questo punto di vista è tanto soggettivo, e dunque lacunoso, quanto realistico, perché le immagini filmate in prima persona sono sempre più autentiche di quelle che risultano da un montaggio operato ad hoc – e a posteriori – per facilitare la comprensione dello spettatore. L’unica verità che la cinepresa può testimoniare è quella racchiusa nel quadro e raccordata a un soggetto. I documentari più interessanti, forse, oggi sono i filmati prodotti dalle videocamere di telesorveglianza: nessun soggetto umano che guarda, tempo illimitato, la realtà cosi com’è. Almeno in apparenza. Chissà, forse un giorno faremo una rassegna anche su questo tipo di cinema…»