Marina Testi, veronese, educatrice professionale, con suo marito e due figli, da quasi due anni, ha lasciato Verona e vive in Inghilterra. Professionista sensibile e attenta ai contesti che cambiano intorno alle persone che di solito vengono considerate più deboli come bambini, donne e anziani, Marina quando si è formata a Verona, si è sempre dedicata a temi socio educativi.

«Prima con gli adolescenti e poi con i giovani-adulti ma, da dopo che sono diventata mamma la prima volta (8 anni fa), ho iniziato a interessarmi al mondo del femminile, alla nascita, all’infanzia. Ho infatti lavorato con Il Melograno e con la Corte dei Bambini.» 

Marina Testi e la sua famiglia, in Inghilterra

Ci risulta che hai vissuto all’estero anche prima di questa esperienza inglese: raccontaci di quella prima volta.

«Precisamente 11 anni fa per un anno ho vissuto negli Stati Uniti, in Massachusetts, vicino a Boston (East Coast). Ho partecipato, con quello che oggi è mio marito, Cristiano, a un progetto che prevedeva un scambio culturale e professionale in una realtà educativa americana. Ma l’anno prima ero stata per 3 mesi in Irlanda, nella bellissima Galway. E l’anno ancora prima un mese in India. Insomma è da un po’ che “costruiamo” il nostro espatrio!»

Quando hai deciso e perché di lasciare ancora Verona?

«Come detto il “semino” migratorio era entrato nella nostra coppia e, poi famiglia, da un po’. Da qualche anno stavamo studiando il mappamondo e stavamo pensando al Canada, memori dell’esperienza americana che ci aveva conquistato. Avevamo scartato gli USA per difficoltà a ottenere dei visti e perché con due bambini la realtà canadese ci sarebbe piaciuta di più. Finché una serie di coincidenze ha fatto sì che facessimo dei passi concreti in questa direzione. Cristiano ha cominciato a mandare dei curriculum in giro per il mondo anglofono. E alla fine del 2016 ha ricevuto delle proposte allettanti dall’Inghilterra. Non avevamo mai valutato l’Inghilterra, piuttosto l’Irlanda, ma le circostanze ci stavano portando proprio qui. Il motivo per cui ci siamo spostati, come rispondiamo spesso ai vari inglesi che ce lo chiedono, è che siamo dei “pazzerelli” che vogliono scoprire il mondo e farlo scoprire ai propri figli.» 

Quanto ha inciso la difficoltà di realizzarsi professionalmente in Italia, a Verona?

«Certo la situazione lavorativa per noi a Verona non era splendida. A mio marito non avrebbero rinnovato un contratto di lavoro e l’asilo nido per cui stavo lavorando avrebbe chiuso l’anno successivo. Tuttavia, come diciamo spesso, non è solo questione di lavoro, certo quello ha inciso, ma il desiderio di fare esperienza di vita all’estero è stato il motore per cui abbiamo cominciato a inviare curriculum non solo a Verona.ì

Tutta la tua famiglia è con te. Come è stata l’integrazione insieme anche ai bambini?

«Sì. I bambini, ora che siamo qui quasi da due anni, hanno 8 e 5 anni. L’integrazione con loro è stata più semplice. Sembra un paradosso, ma il fatto che devi pensare anche a loro, all’iscrizione alla scuola, ad aiutarli a integrarsi con amicizie, attività extrascolastiche ha permesso anche a noi di conoscere altre famiglie, i vicini di casa, posti nuovi. Loro poi nel giro di tre mesi di scuola si sapevano esprimere bene in inglese. Avevano l’età giusta per questo spostamento. Penelope aveva 6 anni e avrebbe dovuto iniziare la primaria a settembre in Italia, Ettore la scuola dell’infanzia.»

Se non erro hai lavorato in ospedale con gli anziani vicini alla fine della loro esistenza, cosa ti porti dietro di quella esperienza?

«Per un anno ho lavorato in un dei tanti reparti di geriatria dell’Ospedale Universitario di Cambridge, dove gli anziani vengono per guarire e stare meglio, ma anche per morire. È stata un’esperienza difficile, sia fisicamente sia emotivamente. Molti degli anziani che venivano nel reparto dove ero io avevano, oltre ad altri problemi fisici (infezioni varie), la demenza (Alzheimer, Parkinson…). Alcuni sguardi me li tengo nel cuore. Poi, porto con me tanta riconoscenza sia dalle famiglie, sia da alcuni anziani stessi che ho avuto modo di aiutare con piccoli gesti, ma che mi sono accorta, soprattutto in ospedale, dove non c’è nulla di familiare e dove si sta male, possono fare la differenza.»

Ora ti occupi, invece, di neomamme. Quindi dalla morte alla vita! Un passaggio interessante, cosa ci puoi raccontare della nuova esperienza?

«Qui dove sono ora, nel reparto di maternità nell’immediato post partum, i ritmi, le aspettative sono diversi. Mi occupo di neo mamme, di neonati, di partner. Finalmente questo è il mio posto. Anche qui si può trovare la sofferenza, la preoccupazione, l’ansia, la disperazione, si tratta pur sempre di un ospedale, ma qui c’è anche la normalità della nascita con i suoi lati oscuri e i suoi lati di luce. L’ospedale dove lavoro è una struttura di eccellenza, riconosciuta a livello internazionale. L’ho scelto e ho fatto ben 6 colloqui di lavoro prima di arrivare nel reparto di maternità che mi interessava. Qui si dà molto peso alla formazione continua e c’è molta possibilità e anche competizione per l’avanzamento di carriera. Il mio obiettivo ora è di imparare più cose possibili attorno alla maternità e magari specializzarmi in qualche area. Per ora il mio interesse è l’allattamento materno, ma poi vedremo cammin facendo. Avevo provato anche a Verona a intraprendere questa strada, ma ad esempio per mettere piede in ospedale avrei dovuto diventare infermiera od ostetrica. Avrebbe voluto dire studiare a tempo pieno per tre anni e con una famiglia per me sarebbe stato impossibile. Qui, invece, ho avuto modo di entrare in ospedale con un ruolo base di supporto alla maternità, una specie di operatorio socio sanitario italiano, che piano piano mi sto costruendo. La prospettiva, se mi interesserà ancora, sarà anche quella di diventare infermiera od ostetrica con un percorso di lavoro/studio. Come ripeto. Vediamo cosa mi riserva il futuro. Questo per me è sostanzialmente “viaggiare”, espatriare. Cioè esplorare lidi lontani, mai visti e mai pensati, anche di se stessi. E questo vorremmo che i nostri figli sperimentassero. Essere aperti al nuovo, al non conosciuto per arricchire se stessi e il mondo in cui viviamo.»

Cosa ti manca di Verona?

«Le amicizie e parlare la mia lingua, nonostante la pratichiamo quotidianamente a casa tra di noi. Incontrare le altre mamme a scuola e scambiare due chiacchiere a Verona poteva essere un piacere, qui a volte è stressante perché soprattutto quando i discorsi sono informali le persone parlano velocissime e con degli intercalari che non ci sono ancora così familiari. A volte mi mancano anche i luoghi familiari, le abitudini.»

Cosa non ti manca affatto di Verona?

«Il traffico, la gente che si lamenta dell’Italia e della politica. E le bestemmie.»