Teatro Nuovo di Verona. Un mercoledì sera di inizio aprile. Ore 20.55. Le luci di sala si affievoliscono e il sipario scorre, lasciando intuire nella penombra le postazioni dei musicisti: sulla destra la tana del batterista, dove, protetta da un muro di plexiglass, si erge una foresta di aste e piatti; poco più avanti la pedana del bassista, su cui un contrabbasso elettrico sembra sia in attesa del suo solleticatore, sulla sinistra del palco una fila di chitarre – dalle linee sinuose come fianchi femminili – delimita il recinto del chitarrista. Infine, al centro, il punto di convergenza di ogni linea, ogni sguardo, ogni intenzione e attenzione: la pedana che Angelo Branduardi (di seguito definito Venerando) raggiunge, dopo che gli altri musicisti si sono sistemati. Quando si accomoda sulla pedana, il teatro tutto gli tributa un omaggio scrosciante, segno di riconoscenza per quel mondo musicale e creativo che lo ha reso unico sulla scena musicale italiana e internazionale.

Lui inforca il violino, che ama definire come un naturale prolungamento del suo corpo e attacca subito la prima della serie di hit che si sgraneranno durante il concerto: Si può fare. La voce non ancora calda del Venerando tentenna un po’, sopratutto nel cambio di tonalità della parte centrale del pezzo, ma le dita sul violino corrono veloci come sempre. La canzone è un inno alla capacità di cambiare, di provarci sempre, di non arrendersi: un monito immortale in tempi di facili rese e imprevedibili cadute come questo. Il teatro apprezza e gli applausi non vengono lesinati. La folta chioma grigio-argentea del Venerando fa su e giù in segno di ringraziamento. È la volta de Il Violinista di Dooney, il pezzo tratto da una poesia di William Butler Yeats, premio Nobel per la letteratura nel 1921. Il Venerando non canta, ma recita: «Come le onde del mare balla la gente quando suona il mio violino… e ancora quando mi vedono arrivare corrono da me tutti gridando… perché sempre allegri sono i buoni salvo che per cattiva sorte…». Il violinista di Dooney è la più nota delle canzoni che Branduardi ha tratto dalle poesie di Yeats, ma è un intero album che il Venerando ha dedicato al poeta irlandese, un album in cui poesia e musica si sposano perfettamente e in cui la melodia del verso è enfatizzata dalla bellezza della musica.

Branduardi esegue a questo punto Gulliver, la canzone che dà il nome all’album del 1980 e la serie dei numeri, a cui segue nuovamente uno spazio poetico, dedicato al Cantico di Frate Sole di Francesco di Assisi. E qui bisogna spiegare un po’ di cose. Innanzitutto quale sia il legame tra un peccatore impenitente come Branduardi e il frate di Assisi è lo stesso cantautore a spiegarci: ci racconta che un giorno si presentano alla sua porta alcuni frati francescani che gli propongono di mettere in musica alcuni estratti dei Fioretti e delle Fonti Francescane. Il Venerando inizialmente storce il naso, spiega ai fraticelli che lui non è aduso a scrivere musica devozionale e che vede il progetto lontano dalle sue corde. I francescani, però, non demordono, sottolineano che, lungi da loro l’idea di commissionare al Venerando musica devozionale, essi pensano più a un lavoro di tipo filologico sulle Fonti. Il loro “non dovrai modificare nemmeno una parola delle Fonti” pare al Venerando un anatema, ma lo convince a cimentarsi nell’impresa. Viene fuori L’infinitamente piccolo, uno degli album più belli di Branduardi, che si avvale della collaborazione di artisti eccelsi come Battiato e Morricone e che, a detta dello stesso Venerando, lo porta in tournée in giro per il mondo e diventa il suo disco più venduto.

L’aneddotica branduardiana vuole che alla domanda del Venerando «perché avete scelto proprio me», i francescani abbiano risposto «perché Dio sceglie sempre i peggiori» Da L’infinitamente piccolo Branduardi sceglie per il pubblico del Teatro Nuovo Il Cantico delle creature, La predica della letizia e Il sultano e la prostituta, che racconta del viaggio di Francesco nelle terre di Babilonia durante una delle crociate. Lo spettacolo continua con canzoni storiche come Il ballo in fa diesis minore, La pulce d’acqua, La luna, Il dono del cervo. In Cogli la prima mela il chitarrista Antonello D’Urso si sbizzarrisce e le dita sembrano volare sulle corde, mentre in Lord Franklin (canzone sulla spedizione dell’esploratore J. Franklin alla ricerca del leggendario passaggio a Nord ovest) è il pianista Fabio Valdemarin a dare prova di grande estro.

Il pubblico è in estasi. Sulla melodia de La pulce d’acqua, in cui il cantautore dimostra una energia straordinaria con il violino, gli astanti portano il tempo con le mani. Il Venerando saluta tutti, riceve libagioni e offerte come gli antichi dei dalla folla in tripudio. Scompare dietro la tenda del sipario, ma viene chiamato ancora sul palco dalle ovazioni del pubblico. E si suona ancora: Confessioni di un malandrino che l’artista dedica a una bimba incontrata nel pomeriggio di quel giorno che lo aveva stupito perché conosceva a memoria tutto il testo della canzone. Le confessioni è un brano musicale contenuto nel suo secondo album La luna del 1975. Il testo è frutto di una traduzione e adattamento di una poesia del 1920 del poeta russo Sergej Esenin, intitolata Confessioni di un teppista. Con quest’ultimo brano la serata volge al termine.

Il Venerando raccoglie l’ultimo saluto della platea e l’ultima offerta di devozione e scompare. Noi torniamo alle nostre vite con la gratificante soddisfazione di aver ascoltato della buona musica e la bella sensazione che a volte basta poco per scrollarci di dosso ogni dogma, convinzione religiosa, credo politico, barriera culturale e tornare a essere semplicemente persone davanti alla bellezza.