La partita è appena finita e c’è un po’ di tempo prima di cena per raccogliere le idee su questo pazzo mondo del calcio.

Questa settimana se ne sono lette e sentite di ogni tipo, da persone convinte di poter definire il mondo del calcio, di poter catalogare e controllare il movimento degli ultras. E la cosa più divertente è che questi “soloni”, pronti al giudizio e alla sentenza, spesso non ci sono mai entrati in una curva. Allo stadio sì, possiamo concederglielo. Ma nel calduccio dello Sky box o con un accredito stampa è impossibile avere la stessa percezione di chi sta a congelarsi le chiappe in curva, chi perde la voce per sostenere la propria squadra, chi organizza il lavoro e la famiglia per non perdersi una trasferta. La percezione di chi ha delle priorità che non approvi.

Grandi penne del giornalismo, non solo sportivo, hanno cercato di spiegare il fenomeno, ma senza arrivare nemmeno a sfiorare la realtà. E il motivo è tanto semplice quanto inafferrabile. Chi si è avvicinato più di tutti al cuore di tenebra della questione, per puro caso visto che raccontava una storia ben diversa, è stato Chuck Palahniuk: «La prima regola del Fight Club è che del Fight Club non si parla». Non esiste il Fight Club, così come non esiste UN fenomeno ultras (adoro l’uso di questa parola, quel “fenomeno” che si può leggere sia come evento che come portento – semicit.) perché esistono milioni di realtà e in questi mondi tante persone che vivono, creano e “sono” il fenomeno in tantissime maniere differenti. Voler definire la profondità del cielo, cercare l’indaco in un tramonto e tentare poi di mostrare a chi ci sta accanto quel che vediamo noi; tutto questo è assurdo.

Nessuno vede mai la stessa forma di un altro, nelle nuvole.

Non mi interessa fare una digressione storica, partendo dagli antichi Romani, né annoiarmi sul motivo sociologico che esiste dietro alle lotte dei gladiatori. Però ammetto che mi fa sorridere il fatto che da un paio di anni i nuovissimi impianti sportivi siano tornati a chiamarsi Arena, una specie di presa in giro, molto sottile, per pochi. In queste arene succede quel che succedeva secoli or sono. L’uomo sente il bisogno di prendere posizione, di sedersi dalla parte giusta, di stare accanto ai suoi simili. Le curve – A, B, Nord, Sud – hanno solo dato un modo pratico alle società sportive per organizzare gli spettatori, nella speranza di poterli in questo modo controllare. E invece, guarda te cosa succede: sembra siano le curve a controllare le società, mafiosi si fanno riprendere a bordo campo accanto al raccattapalle, bestioni “carucci de zia” bloccano le partite finché la polizia non cede al compromesso e si sente addirittura di accordi segreti con le tifoserie. Tutte inchieste che fanno poco rumore e non si fila nessuno, tanto siamo in Italia; almeno fino al fatto grave. Quel che fino a un momento prima era perfettamente tollerato e quasi incoraggiato, al momento della tragedia cambia natura, diventa il nemico da sconfiggere subito e tornano le solite sfilze di soluzioni, suggerimenti e bisogna fare come in Inghilterra.

La tragedia è tutta italiana, altro che greca.

Ma entriamo nel dettaglio. Che cos’è ‘sto fenomeno? Che cos’è un ultras, un ultrà, un – come si dice – facinoroso? Come detto prima non esiste una risposta giusta, quindi nessuna delle prossime sarà sbagliata. Neanche tutte le altre che vorrai aggiungere tu, caro lettore.

Per alcuni essere un ultras significa appartenenza, sentirsi parte vitale di un gruppo, condividere di tanto in tanto alcuni momenti di sicura tensione ma anche tante situazioni spassose, ridicole, spaccabudella; per molti significa amicizia, lealtà e disponibilità ad aiutare sempre chi nel gruppo si trovi in difficoltà, e non soltanto quelle legate alla partita o allo stadio.

È sapere che scendendo dalla macchina per sgranchirti le gambe dopo i primi 300 chilometri, nel piazzale di un autogrill probabilmente incontrerai altra gente con i tuoi colori, che non conosci (o forse sì) ma che saluterai come foste parenti e con cui dividerai la birra calda e i due panini rimasti nel baule. Essere ultrà di una squadra significa far parte di un gruppo, superare ogni differenza di classe sociale e ricchezza personale, essere uno dei tanti, uguale tra uguali; è un po’ come essere a casa.

Nello stadio, questa grande accogliente casa, succede una (ehm…) magia, per così dire. Succede che la protezione del branco rende ardito anche un agnellino, capita che tutte le frustrazioni abbiano un sussulto al primo coro intonato, ai primi buu al calciatore scorretto o diversamente colorato; succede che un mite padre di famiglia si trasformi nell’incredibile Hulk, che sfoghi la sua cattiveria urlando e insultando i giocatori la squadra l’arbitro dio e perfino il freddo cane. Non sempre in quest’ordine.

C’è tutto un mondo, nello stadio: ci sono cori di sostegno alla squadra, quelli goliardici (so che starete tutti pensando agli “sfottò” quindi va bene, lo scrivo – ma mi dissocio da questo termine gnegne, sia chiaro) e ci sono, certo, anche gli insulti e l’invocazione di terremoto eruzione e carestia sui campi del nemico, per non citare i commenti sulle inclinazioni sessuali…

È la vita vera, bellezza, senza ali e senza rete.

Lo stadio è un contenitore in cui tutto diviene lecito. Nel labirinto chiamato prefiltraggio, saltano davvero tutti i filtri del perbenismo e dell’educazione, delle convenzioni sociali. Tra gli amici di sempre, senza più il timore di essere mal giudicati o addirittura traditi, esce una parte di noi di solito nascosta sotto strati e strati di quieto vivere, quella parte che teniamo buona chinando il capo al sopruso o al superiore. Allo stadio si può rialzare la testa, si può metaforicamente sputare in faccia all’avversario e ricoprirlo dei peggiori insulti. Un’ora e mezza di scarico, di “altro mondo”, un paio di birre, un abbraccio che toglie il fiato al goal e un mare di facce che cantano tutte insieme.

Nel mio stadio si fa un coro che ogni volta mi toglie il fiato: «Non ti lasceremo mai… SOLI, insieme a voi». Quel “soli” urlato con quanta forza in gola fa rabbrividire gli avversari, ammutolisce i tifosi in trasferta e tutti noi, nella mia curva, dopo averlo cantato abbiamo la faccia sorridente.

E finisce lì. Niente di quel che accade nel Fight Club esce dal Fight Club, lo impariamo dai più grandi, diventa un segreto da non raccontare a mamma, e lo passiamo alle prossime generazioni. Usciti dallo stadio torniamo alle solite cose, al nostro ruolo abituale, alla gentilezza e all’amore che pure sono parte di noi. Usciamo più leggeri, anche se la partita non è andata come doveva. Qualcuno va a casa, qualcuno al bar per un ultimo giro, ma stiamo bene e solo verso il cancello di casa ci sfiora svelto il dubbio su quale sia, dentro di noi, il vero Tyler Durden.