Alcuni anni fa Fabio De Luigi impazzava nei programmi della Gialappa’s Band con la macchietta assai simpatica di “MedioMan”, uno pseudosupereroe con la mantellina sopra la camicia a maniche corte che aiutava, con soluzioni banali, improbabili casalinghe in difficoltà per altrettanto banali motivi. Ed era proprio questo che faceva ridere: che, ad esempio, per asciugare dell’acqua caduta da un vaso fosse necessario l’intervento di un supererore, per quanto “medio”.

Fabio De Luigi in MedioMan

Spostando il livello della riflessione dalla cultura Pop, rappresentata dai programmi TV, alla riflessione sociologica, la nostra attenzione si rivolge su di un recente saggio dal titolo La Mediocrazia, scritto dal filosofo canadese Alain Deneault. Oggetto della sua tesi è la rivoluzione silenziosa, ma non per questo meno dirompente, con cui i mediocri hanno preso le leve del potere in ogni ambito della società moderna, dalla politica  all’economia, instaurando una sorta di regime globale.

Tale processo, iniziato con l’avvento dell’industrializzazione del lavoro fisicoe intellettuale, ha raggiunto la sua massima intensità nell’epoca contemporanea. La mediocrazia, secondo Deneault, è lo “stato medio” innalzato al rango di autorità. Non è questo il luogo in cui approfondire l’assai stimolante lavoro del filosofo, ma non si può evitare di integrare la sua lettura con uno studio di cui ci siamo già occupati, La conoscenza e i suoi nemici, di Tom Nichols, (“Il Nazionale” del 30 novembre 2018). La tesi di Nichols, complementare a quella di Deneault, è che la competenza sia vista con occhio sempre più sospettoso da parte delle masse che – anziché considerarla una patente di merito e un necessario supporto per chi ricopre ruoli amministrativi e dirigenziali –  la vedono come uno stigma: ossia l’appartenenza a un’élite nemica del popolo, il quale, secondo una “teodicea della sofferenza” già indagata in maniera molto convincente da Weber, rappresenta se stesso come una massa disagiata che si ritiene defraudata e rivendica il suo disagio come elemento di merito in vista della futura liberazione. Rimarrà storico, in questo senso, il “Questo lo dice lei” con il quale la pentastellata Laura Castelli, dall’alto della sua laurea triennale in Economia, dibatteva in una trasmissione TV con l’ex ministro Padoan, già economista del Fondo Monetario Internazionale. 

Matteo Salvini, deejay a Milano Marittima

Questa lunga premessa è necessaria per interpretare con la giusta chiave l’ascesa di Matteo Salvini da oscuro consigliere comunale milanese (noto alle cronache per la sua proposta di riservare posti a sedere sui mezzi pubblici ai soli passeggeri italiani) ad autentico dominus della politica nazionale. Nei giorni scorsi, dopo la sua tanto contestata esibizione alla consolle di una discoteca sulla spiaggia di Milano Marittima, il Capitano è stato difeso dal suo popolo sul Web. Delle tante voci, una ci pare significativa: quella di un consigliere comunale che ha scritto sui social: «Grande Matteo! Leader del più grande partito in Italia e d’Europa che si comporta come un uomo qualunque, tra la gente, per la gente. Questa è la tua forza, questo quello che vogliono le persone normali».

Ora, prescindendo dal fatto che “gli uomini normali” in genere non fanno i deejay in spiaggia e un ministro non dovrebbe essere esaltato perché si comporta come un “uomo qualunque”, piuttosto perché svolge bene un lavoro nient’affatto “qualunque”, queste parole colgono le ragioni dell’ascesa di Salvini molto meglio di ponderose pagine di analisi sociologiche. Salvini trionfa perché è il “medioman” nel quale la maggioranza degli italiani si identifica. Con il modo di vestire raffazzonato, il fisico fuori forma, la pancia dilatata dai tortellini al sugo Star e da boccali di birra di cui si nutre, almeno stando ai post che pubblica sui social, e i suoi slogan banali da “terribile semplificatore”, Salvini interpreta l’average guy in una società di mediocri che (non a caso) ha individuato nei due estremi della piramide sociale, ovvero l’élite e chi vive ai margini, gli obiettivi verso cui incanalare il proprio risentimento per non essere riusciti a salire sull’ascensore della mobilità sociale verticale.

Attorno a questa figura, che interpreta più o meno scientemente, Salvini ha costruito un movimento di cui la classe dirigente dal curriculum “leggero” è lo specchio fedele. Essa è composta di average guys le cui eccellenze sono studenti fuori corso, ex archivisti in enti pubblici, disoccupati cronici senza una sola ora di lavoro all’attivo e via discorrendo, ritrovatisi nella stanza dei bottoni del Paese. I risultati si vedono: in Europa l’Italia è una specie di paria, l’unica Nazione in stagnazione dove, al di là delle roboanti affermazioni della propaganda di regime, nessun provvedimento del governo della gente (comune) è stato minimamente efficace. La realtà vince sempre sulla narrazione, per quanto il salvinismo come categoria dello spirito viva sulla totale identificazione del popolo con i suoi paladini. «Virtù del Nulla», diceva in un’intervista del 1977 la scrittrice Anna Maria Ortense. «Più una cosa è nulla, o male addirittura,  più è vanificante o vanificata, più viene accettata e celebrata. Sembra uno scherzo, dapprima: poi, poco a poco, ti convinci che è realtà.»