Una brutta serata questo 23 novembre 2018, diciamo pure avvilente. Il calcio è anima, emozione, energia. Si alimenta e vive di capitale umano, la sua vera ricchezza. Uno stadio deserto non può che esserne la pietra tombale. Sciopero della partecipazione doveva essere, e sciopero è stato con un indice di adesione da maggioranze bulgare. Fuori, un corteo di duecento curvaioli a manifestare  (va detto in maniera composta) il proprio sdegno sotto la tribuna presidenziale. Per il resto tutti a casa. All’interno, duecento ultrà palermitani e qualche timida e sparuta apparizione qua e là. Hanno vinto il grigiore del cemento in disarmante vista e le urla del silenzio. Fotogramma cupo e spettrale di una notte in cui il calcio ha celebrato un funerale. 
C’era pure un che di grottesco: dal campo salivano gli echi di ostie e madonne smoccolate dai calciatori. Cose che regolarmente avvengono nei campetti di quartiere. Peccato che di quel calcio, quello dei rettangoli polverosi delle periferie tanto cari a cantori come Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano, ieri sera non vi era nemmeno lontana traccia. L’abbandono è un gesto forte, molto forte. La lunga e tormentata storia dell’Hellas Verona ha più riprese vissuto in passato giorni di contestazione, anche feroce, ma mai tuttavia di queste proporzioni: in un Verona-Torino del 2003 fu solo la curva sud a rimanere deserta in segno di protesta verso l’allora presidente Giambattista Pastorello. Nella Hall of Shame architettata dal tifo gialloblù avrà ora Maurizio Setti a fargli compagnia. Quella porzione di stadio rimasta vuota nel 2003 è infatti nulla di paragonabile nelle dimensioni, al colpo d’/nell’occhio che offriva un Bentegodi ridotto ad una cattedrale nel deserto. 
Della partita poco o nulla ci è interessato. Avevamo la testa altrove, assorti in ben altro tipo di pensieri piuttosto che la noia della tattica o lo stucchevole conteggio delle pallegol. Tra Verona e Palermo è finita col classico pareggino che non serve a nessuno, ma pure se avessimo vinto noi non ci saremmo certo lasciati andare chissà a quali peana. La cruda verità è che siamo tornati a casa affranti nello sconforto. Amiamo questo pazzo gioco, da sempre.  E allora abbiamo pensato un po’. Abbiamo pensato a quando portavamo i calzoni corti con le bretelline e allo stadio vi ci portavano per mano i nonni. Calore, colore, fragore. Fu amore a prima vista. Abbiamo pensato a quante gioie e torture abbiamo vissuto lì dentro. Quei gradoni sono testimoni di pezzi di noi stessi, delle nostre storie, delle nostre vite. Abbiamo pensato che una piovosa notte di novembre tutto s’è portata via. Tornati a casa, abbiamo però anche pensato che no, non finisce qui. E allora, abbiamo pensato, non resta che rimboccarci le maniche e lottare per riprenderci  prima possibile quanto ci è stato strappato, che la follia del sogno è un diritto, e che tutto potranno toglierci, ma la passione, quella no. «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», lo scrisse Pierpaolo Pasolini. E lui era uno che il calcio lo amava per davvero. Ripartiamo dalle sue parole. Abbiamo pensato anche questo ieri sera…e non ci pare proprio una cattiva idea.
Lorenzo Fabiano  @lollofab