Fabio Grosso

Iniziata male, finita peggio. Così, con la più laconica e abusata delle definizioni, potremmo fotografare l’avventura di Fabio Grosso sulla panchina dell’Hellas Verona. E aggiungiamo che sarebbe dovuta finire prima, molto prima. Ci saremmo tutti risparmiati questo strazio. Ce ne sarebbero state purtroppo altre, perché Grosso in bilico su quella panca traballante più o meno ci è sempre stato, ma le due disastrose franate di Brescia e Padova erano le occasioni che avrebbero richiesto un intervento da parte della società. Inciampo dopo inciampo, si è deciso di andare avanti, di rinnovargli la fiducia, condannando di fatto il Verona, la sua gente, e lo stesso Grosso, alle pene del calvario. Come minimo, diciamo che la si è tirata troppo lunga. Massimo il Temporeggiatore al confronto di Maurizio Settiera un fulmine.

Rifatto da cima a fondo in estate, il Verona del nuovo corso si presentava ai nastri di partenza della nuova stagione come una delle favorite. Un progetto ambizioso che ha deluso le attese. Vengono in mente colossali flop cinematografici del passato. Su tutti, I cancelli del cielo, di Michael Cimino. Nel 1980 la United Artist investì 44 milioni di dollari per incassarne 3 al botteghino. Così finì sul lastrico. Numeri, proporzioni e rischi sono per fortuna ben diversi, ma l’attesa per il film di Cimino era altissima. E alla fine non convinse nessuno. Come non ha mai convinto il Verona di Fabio Grosso: qualche buona partita la squadra l’ha anche fatta, ma non è mai stata capace di darle un seguito. È soprattutto mancata la continuità, non solo di risultati, ma soprattutto di prestazioni.

Armando Siri

Il Verona targato Grosso non ha mai dato l’impressione di poter svoltare, di cambiare passo e marcia. Monocorde, monotematico fino alla noia. Giocatori palesemente fuori ruolo; un ricorso alle rotazioni troppo disinvolto; l’ortodossia del modulo e la mancanza di un piano B. L’allenatore ci ha messo molto del suo, finendo per perdersi nei meandri delle sue stesse scelte discutibili e spesso incomprensibili. Di fronte a un fallimento come questo e per rispetto di un presidente che lo ha ostinatamente difeso sino al Tafazzismo, ci saremmo aspettati da lui, persona perbene, un gesto signorile come le dimissioni. E invece niente di niente. Poveri illusi, se non le mette sul tavolo di Conte Armando Siri, perché mai dovrebbe farlo Fabio Grosso su quello di Setti? Le dimissioni sono una cosa seria che, come sempre, in Italia tutti evocano, ma quasi nessuno adotta. Nessuna sorpresa quindi.

Alfredo Aglietti

La responsabilità della società è di non aver capito e letto la gravità della situazione a suo tempo, quando i segnali erano chiari, netti ed evidenti. È intervenuta a due partite dalla fine del campionato quando le cose si son fatte non più sostenibili, e oltre a gioco e punti, al gruppo è venuta meno l’anima. Il Verona attuale ha le gomme a terra, il carburatore sporco e il motore che batte in testa. Necessita di una sosta ai box e delle cure del nuovo capo meccanico, individuato in Alfredo Aglietti, un ex gialloblù che la piazza la conosce. Gli auguriamo buon lavoro, perché davanti ha un compito difficilissimo.

La serie A diretta è andata da un pezzo, rimane ancora aperto l’accesso attraverso la porta di servizio. Un passaggio unico e stretto, un pertugio per tanti agguerriti contendenti. Durissima. Arrivare agli spareggi e giocarseli è a questo punto l’unico obiettivo. L’urgenza e la gravità della situazione impongono però altro. Il Verona del 1° maggio è morto dentro. La prima cosa che Aglietti è chiamato a fare, è praticargli un massaggio cardiaco e provare a rimetterlo quantomeno in piedi. Poi, sia quel che sia.