Con la mostra “Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght”, visitabile fino al 5 aprile 2020 al Palazzo della Gran Guardia di Verona, ci si immerge in un Novecento intenso, ricco di quelle contraddizioni che l’hanno caratterizzato. Un secolo sospeso tra sentimenti opposti che – abbandonati gli echi di una tradizione agricola e contadina – si è avvicinato sempre più agli impulsi di innovazione e modernità che derivavano dal contemporaneo.

Ciò che già sappiamo, ma che piace constatare in prima persona, è il carattere estremamente moderno dell’opera di Giacometti – una settantina le opere dell’artista tra sculture e disegni – modernità nel soggetto, nel segno, nel tratto frenetico e graffiato, nel modo di raccontare il sentimento. È grazie alla completezza dell’esposizione che il percorso permette di apprezzare e conoscere non solo le opere, ma anche la vita dell’artista. 

Un uomo nato a Borgonovo di Stampa, frazione di poco più di cinquecento abitanti nella regione svizzera Maloja, non distante da dove visse e morì Giovanni Segantini, tra i più significativi innovatori dell’arte, con il suo Divisionismo abbracciato e legato a doppio filo dalla profondità e liricità del Simbolismo. Così, in una zona di montagna ancora legata alle tradizioni di cui accennavo e lontana da quelle che saranno le nascenti capitali europee che Giacometti frequenterà, si va confermando una ricerca artistica volta a raccontare non solo ciò che circonda l’artista – Segantini diversi anni prima più descrittivo del luogo ma pur sempre moderno nel tratto e nel valore allegorico dell’opera – ma anche i propri sentimenti. 

Un percorso affinato dagli studi, prima presso la Scuola di arti e mestieri di Ginevra, poi ai corsi di scultura di Émile-Antoine Bourdelle e all’Accademia della Grande Chaumière di Parigi. Ecco che, dal graffio e dal tratto spezzato del Divisionismo, Giacometti sembra riprendere ed elaborare quello che sarà il segno sincopato delle sue sculture, lo slancio, la stilizzazione, l’essenzialità e la distorsione delle forme del contemporaneo. L’opera di Giacometti, protagonista di un’epoca ricca di avventure artistiche, come fu per l’Impressionismo, riporterà Parigi al centro dell’arte contemporanea.

Alberto Giacometti, L’uomo che cammina

La tridimensionalità della scultura e il fascino che essa esercita, specialmente in una visita “dal vivo”, permette inoltre di avvicinarsi a quei linguaggi e a quei riferimenti che furono cari all’artista: l’inaccessibilità degli oggetti, le distanze esistenti tra gli uomini, la divisione uomo/donna, la filosofia di Sartre, l’esistenzialismo che oscilla tra umanesimo, pessimismo, moralità e ricerca del bene.

Oltre alle settanta opere di Giacometti ne contiamo un’altra trentina dei grandi maestri che gravitarono a Parigi in quegli anni. Un percorso che diventa sintesi delle innumerevoli avventure culturali dell’Europa della metà del secolo scorso, sospeso tra passato, innovazione e due guerre mondiali che definirono e fornirono all’essere umano, e di conseguenza agli artisti, nuove forme, prospettive e visioni. Surrealismo, post Cubismo, sono «un crogiuolo di esperienze», sottolinea il curatore Marco Goldin, che dialogano, influenzano e sono influenzate dallo stesso artista.

«Giacometti è stato una delle mie prime passioni nel campo dell’arte, poco dopo i vent’anni. Lo cercavo nei libri, nelle mostre e nei musei d’Europa – prosegue Goldin. – Ho immensamente amato dapprincipio i suoi disegni, diversi dei quali ho scelto di portare in Gran Guardia. Poi i suoi quadri così sincopati, soprattutto le figure e le nature morte, anch’essi presenti a Verona, e naturalmente le celeberrime sculture. Opere che ne attraversano tutta la carriera, dal suo tempo giovanile in Svizzera alle sculture inaugurali attorno ai quindici anni, fino alle prove surrealiste e a quelle, ormai facenti parte dell’immaginario collettivo, della maturità.»

Di Alberto Giacometti, in primo piano, Il cane, e sullo sfondo a sinistra, Il gatto.

È in questo clima che la presenza in mostra di opere di Kandinskij, Mirò, Braque, Derain e Léger aiutano a inquadrare un secolo che in realtà è inafferrabile. Aiutano a comprendere, quindi, il racconto dell’arte, che fino a qualche decennio prima era prettamente descrittivo. Un universo che cede il passo al mondo interiore dell’artista, immedesimato in ognuno di noi.

Così l’artista, assurto a uomo ideale, scaraventa e graffia sulla tela o crea con la materia ciò che sente, riconoscendosi nei volti conflittuali e multiformi di ciò che fisicamente lo circonda o che mentalmente lo ispira. «E’ affascinante ormai non più soltanto immaginare, ma anche effettivamente vedere – conclude Marco Goldin – nel vasto salone centrale della Gran Guardia la “Grande donna in piedi”, scultura filiforme di quasi tre metri di altezza, fino alla scultura più celebre tra tutte, “L’uomo che cammina”, esposto al suo fianco. Nel mezzo la ricostruzione precisa e poetica, dell’intera vita di Giacometti, tra disegni e pitture e soprattutto tante tra le sue famosissime sculture, dai busti e le teste del fratello Diego, ai cani, ai gatti, alle foreste fatte di figure quasi liquefatte. Fino alla nota figura femminile del 1956, detta “Donna di Venezia”, esposta alla Biennale veneziana di quell’anno e che tanto successo riscosse.»

Ferdinand Léger, Composizione su fondo verde, 1929-1930

Un percorso da visitare, gustare e rivedere quello suggerito nell’allestimento di Linea d’Ombra che, grazie alla collaborazione con Fondazione Aimé e Marguerite Maeght di Saint-Paul-de-Vence, trascina con decisione e a tratti angoscia, nella schiettezza riflessiva che solo l’arte sa suggerire. Ci pensa Chagall, con le sue visioni oniriche, surreali e sognanti – forme, colori e sensazioni opposte – a mostrare ancor più il valore dell’interpretazione dell’opera, tra desiderio di evasione ed enfatizzazione del dramma, sinonimo della preminenza del sogno sulla realtà.