«Il ballo? Una medicina per l’anima»
La storia di Samuel Agostini, insegnante per vocazione, “dottore delle emozioni”

La storia di Samuel Agostini, insegnante per vocazione, “dottore delle emozioni”
C’è una frase che Samuel Agostini ripete spesso: “Il ballo mi ha salvato la vita”. E quando la dice, non cerca una battuta d’effetto: racconta una verità che ha segnato la sua traiettoria personale, da bambino inquieto a fondatore della scuola Dance With Me Verona. Tutto è iniziato, racconta, grazie a sua madre, quando lo portò a vedere un’esibizione di ballo latino-americano a Sirmione. «Avevo dieci anni, giocavo ancora a calcio, ma da quel momento ho iniziato a fare entrambi. A dodici anni ho lasciato definitivamente il pallone: ballare mi faceva stare bene, era un linguaggio che capivo e che sentivo mio.»
Non è stato un passaggio lineare. Samuel ha dovuto affrontare qualche presa in giro alle medie, qualche battuta da parte di compagni che vedevano il ballo come qualcosa di poco maschile. Ma lui non si è mai lasciato abbattere. «Ero solare, mi piaceva vivere. Quelle piccole ferite non mi hanno mai veramente colpito. E uno di quei ragazzi, anni dopo, è venuto a prendere lezioni proprio da me. Senza che glielo facessi pesare. Non ho mai cercato conferme. Avevo già capito che il ballo mi dava qualcosa che nient’altro riusciva a darmi.»
Per anni ha gareggiato e ha insegnato, ma senza mai trasformare quella passione in un lavoro strutturato. Fino a un punto di rottura. «Mi sono trovato in una fase della vita in cui facevo tantissimo, ma sentivo che mi stavo svuotando. Ballavo per passione, certo, ma sentivo che doveva diventare qualcosa di più chiaro. Ho capito che serviva un sistema, un’organizzazione. Volevo che questa cosa fosse sostenibile, non solo emotivamente, ma anche mentalmente. Volevo trasmettere qualcosa di più che insegnare solo passi.»
Quel punto di svolta è arrivato in modo brusco, quando la scuola per cui lavorava lo ha messo alla porta. «Era appena nato il mio secondo figlio. Mi hanno stretto la mano e mi hanno detto che non c’era più spazio per me. Ma io ero già pronto. Avevo capito cosa volessi fare e come. In due giorni ero in un’altra sala, con le idee chiare. Una persona mi diede le chiavi, senza garanzie, ma con fiducia. E ho iniziato. Non ho mai sentito ansia. Perché nella mia vita nulla è mai stato sicuro, se non la morte. Questa convinzione mi ha sempre fatto andare avanti.»
Oggi Dance With Me è più di una scuola: è un luogo di accoglienza, relazione e trasformazione. Non si entra per imparare una sequenza di passi, ma per iniziare un percorso personale. «Appena arriva qualcuno, lo accolgo come in uno studio medico. Gli offro un caffè, gli faccio compilare una scheda. Ma la domanda più importante è una: “Perché hai deciso di iniziare a ballare?”. Lì capisco chi ho davanti, e cosa sta cercando.»
Samuel ascolta, osserva, costruisce percorsi personalizzati. Non crede in un metodo unico valido per tutti. «C’è chi vuole sudare, chi vuole sentirsi più sicuro, chi cerca espressività, chi cerca uno sfogo e chi ha bisogno di superare i propri limiti personali. Il ballo può essere tutto questo. Io non prescrivo passi, ma offro strumenti. È un atto di cura.»
Una delle esperienze più forti che racconta è quella con Matilde, una ragazza autistica che da quattro anni frequenta la scuola. «All’inizio non riusciva neanche a guardarmi negli occhi. Oggi balla, si esprime, è parte della nostra famiglia. È stata lei, forse più di chiunque altro, a farmi capire che il ballo è una medicina. Una medicina per l’anima.»
Questa idea di danza come cura attraversa tutto il suo lavoro. Samuel si definisce un “dottore delle emozioni”, e non lo dice per vanità. «Io ho ricevuto tanto dolore, ma anche tanto amore. E tutto questo oggi lo trasformo in qualcosa che posso restituire. Ogni lezione è una visita: non con un camice, ma con attenzione, rispetto, presenza. Le persone che entrano qui non cercano un esercizio, cercano un cambiamento. E io sono lì per accompagnarli.»
Insegna a ragazzi e adulti. «La danza, non è solo disciplina fisica: è educazione emotiva, è una forma di crescita. Quando un allievo trova in un insegnante una guida, trova anche un altro pezzo di sé. Io cerco di esserci, di essere quella guida invisibile, che non impone, ma accompagna.»
Alla domanda su come si relaziona con i nuovi allievi, Samuel risponde che ogni persona è un mondo, e ogni mondo va esplorato con rispetto. Non usa mai un approccio standard. Guarda, ascolta, e poi propone. «Il mio metodo è costruire una relazione. Far sentire l’altro accolto, visto. Solo così puoi chiedergli di mettersi in gioco.»
Non è interessato a chi cerca una scuola standard e un divertimento superficiale. «Io voglio persone che abbiano voglia di mettersi in discussione. Il ballo è una cosa seria, da vivere con leggerezza. Non serve essere ballerini professionisti, serve essere umani aperti. Qui non si giudica nessuno, ma si chiede rispetto: per sé, per gli altri, per quello che stiamo facendo insieme.»
Quando gli chiedi se tutto questo può crescere, diventare qualcosa di più grande, Samuel annuisce. «Credo sia il momento giusto, e sto iniziando a muovermi, per creare un franchising, non per guadagno, ma per diffondere questo modo di vedere il ballo. Un metodo che metta al centro la persona. Che sappia accogliere, ascoltare, curare. Che insegni la passione, non solo la tecnica.» Poi, si ferma un attimo e sorride. «Sai cosa dico spesso? Qui non si insegna l’arte della guerra. Si insegna l’arte della passione.»
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