Il “lavoro sporco” e la resa della coscienza
Dopo le parole del cancelliere tedesco Merz su Israele, serve più che mai una riflessione lucida: non si può giustificare una guerra infinita in nome dell’Occidente.

Dopo le parole del cancelliere tedesco Merz su Israele, serve più che mai una riflessione lucida: non si può giustificare una guerra infinita in nome dell’Occidente.
«Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi». È bastata questa frase, pronunciata dal cancelliere tedesco Friedrich Merz, per far gelare il sangue a moltissime persone. Non solo per la sua sfrontata disumanità, ma perché dice molto più di quanto sembri: quella frase racconta di un’Europa che ha smarrito la bussola morale, di una politica che scambia la complicità con la lucidità, e di un mondo che sembra scivolare, quasi con indifferenza, verso l’abisso.
Diciamolo chiaramente: nessuno ha chiesto a Israele di bombardare Gaza per mesi interi, riducendo a macerie case, scuole, ospedali, campi profughi, uccidendo decine di migliaia di persone — in larghissima parte civili, donne, bambini. Nessuno ha chiesto a Israele di varcare un’altra linea rossa aprendo un fronte diretto contro l’Iran, senza alcun mandato internazionale, senza alcuna giustificazione credibile. Ma soprattutto: nessuno ha il diritto di dire che quel bagno di sangue sia stato fatto “per noi”.
Quelle parole sono uno schiaffo alla memoria storica, al diritto internazionale, all’idea stessa di convivenza tra i popoli. Sono uno scivolamento pericoloso verso la barbarie elevata a strategia. Perché qui non si tratta di geopolitica, ma di umanità. O della sua mancanza.
Sull’Iran, Merz e chi lo applaude mentono — o peggio, ignorano. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha ripetutamente chiarito che non ci sono prove concrete che Teheran stesse lavorando attivamente alla bomba. E anche se lo facesse, l’idea che possa usarla contro Israele è non solo improbabile, ma suicida: un attacco del genere scatenerebbe una rappresaglia immediata e devastante. Lo sa chiunque abbia aperto un libro di storia o letto una mappa strategica.
Che il regime iraniano sia opprimente, teocratico, crudele verso il suo stesso popolo, è fuori discussione. Ma non esiste intervento armato, non esiste bombardamento “amico” che possa liberare un popolo dalla tirannia. Lo abbiamo già visto. Afghanistan. Iraq. Libia. Siria. Paesi devastati, popoli lasciati in frantumi, democrazia mai arrivata. E allora, per cosa? Per chi?
Dobbiamo dirlo forte: Israele non sta difendendo l’Occidente, sta difendendo sé stessa — e lo sta facendo con una brutalità fuori controllo. Sta portando avanti una strategia della tensione per spostare lo sguardo dal dramma palestinese, per spezzare ogni opposizione interna, per galvanizzare una destra estrema che in Netanyahu ha trovato il suo profeta della guerra. E a questa logica si accodano, in perfetta sincronia, figure come Trump (sì, proprio quello del “con me alla Casa Bianca la guerra finirà in 24 ore“, riferendosi al conflitto Russia-Ucraina, che prosegue senza sosta), assetato di consenso – sete che gli si ritorcerà contro – e sempre pronto a soffiare sul fuoco.
Il rischio oggi non è più astratto. È tangibile. Si parla apertamente di “attacchi preventivi”, di “bombe tattiche”, di “rischi calcolati”. Ma il rischio più grande è la disumanizzazione totale, il considerare la guerra come una necessità naturale, come un prezzo da pagare — purché lo paghino gli altri.
Merz ringrazia Israele. E mentre lo fa, calpesta le decine di migliaia di morti sotto le macerie di Gaza, ignora le famiglie iraniane che temono per la loro sopravvivenza, e legittima una strategia che ci sta conducendo, lentamente ma inesorabilmente, verso la catastrofe. Non solo politica, ma etica, civile, morale, storica.
Allora chiediamoci, come giornalisti, come cittadini, come esseri umani: fino a quando durerà questa follia? Quante vite ancora dovremo contare prima di alzare finalmente la voce? Quanto a lungo continueremo a chiamare “lavoro sporco” ciò che è semplicemente una vergogna collettiva?
Non possiamo più permetterci di rimanere spettatori. Perché il silenzio, oggi, è una forma di complicità. E perché — diciamolo con tutta la forza possibile — non in mio nome. Non nel nostro nome.
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