È un titolo che graffia, No tu no. Evoca l’ironia surreale di Jannacci, ma la capovolge in una denuncia: sei milioni di italiani oggi rinunciano a curarsi, e dietro questo numero ci sono scelte politiche, disuguaglianze sociali e una sanità pubblica sempre più fragile. Rosanna Magnano, giornalista di Radio 24 e autrice del saggio Chi ci curerà, torna in libreria con un nuovo libro-inchiesta – scritto a quattro mani con Barbara Gobbi – presentato pochi giorni fa alla Feltrinelli di Verona, dove ha dialogato con la collega Silvia Bernardi.

Un viaggio attraverso le voci di chi resta ai margini: migranti, anziani, persone transgender, giovani con disturbi alimentari. E una domanda urgente: che futuro vogliamo per la salute in Italia? L’ha intervistata per noi Silvia Franceschini.

Magnano, il titolo del suo libro, “No tu no”, richiama la celebre canzone di Enzo Jannacci. Come è nata l’idea di utilizzare questa citazione per raccontare l’esclusione sanitaria in Italia?

«Il titolo di un libro è fondamentale: dev’essere un lampo, qualcosa che colpisca e incuriosisca. No tu no è una frase in apparenza semplice, ma ha una forza violenta. Allude a un’esclusione gratuita, irrazionale, cattiva, e insieme richiama l’ironia amara della canzone di Jannacci. Unisce follia e ferocia, e questo contrasto è proprio quello che volevo evocare. È una frase che urta, che vuole scuotere il lettore e metterlo in discussione: no tu no, come a dire non sei tu quello escluso? E allora rifletti.»

Rosanna Magnano, a sinistra, e Silvia Berardi nella foto di Silvia Franceschini durante l’incontro alla Libreria Feltrinelli di Verona

Nel testo emerge che oggi sei milioni di italiani rinunciano alle cure. Oltre a questo dato, qual è l’aspetto che l’ha maggiormente colpita durante la sua ricerca?

«Il definanziamento della sanità pubblica è certamente un dato allarmante, e purtroppo non si intravedono segnali di inversione. Ma ciò che mi ha colpito di più sono i divari profondi, i veri e propri gap di salute che attraversano il Paese. L’Italia non è una, ma tante: esistono differenze enormi non solo tra Nord e Sud, ma anche tra chi ha un’istruzione e chi no, tra chi ha risorse economiche e chi è in difficoltà. Gli esiti di salute e l’accesso alle cure seguono queste linee di frattura. E questa disuguaglianza è il nodo centrale che ho voluto far emergere.»

Lei conduce il programma “Madre Terra” su Radio 24 e si occupa di agricoltura. Esiste un collegamento tra la salute del territorio e la salute delle persone?

«Assolutamente sì, i legami sono numerosi e spesso sottovalutati. La prevenzione, ad esempio, comincia anche a tavola, con una dieta sana, l’eliminazione dell’alcol, la scelta di alimenti di qualità. Ma c’è anche il tema dell’impatto ambientale dell’agricoltura e di quanto il processo produttivo incida sulla nostra salute. Penso, per esempio, al fenomeno dell’antibiotico-resistenza: oggi alcune medicine fondamentali non funzionano più, e tra le cause c’è anche l’abuso di antibiotici negli allevamenti. Per fortuna, il settore zootecnico ha compiuto passi avanti importanti, riducendone l’uso di oltre la metà negli ultimi tre anni. Sono temi strettamente intrecciati.»

La copertina del libro “No tu no”

Il libro dà voce a molte categorie “invisibili”: migranti, anziani, persone transgender. Quale di queste storie l’ha colpita maggiormente?

«Tutte, davvero. In ognuna c’è una fragilità che fatica a trovare ascolto, e proprio per questo chiede attenzione. Le storie delle persone transgender, ad esempio, mostrano una realtà fatta di ostacoli concreti: pregiudizi, scarso accesso agli screening, personale sanitario non adeguatamente formato, lunghissime liste d’attesa per gli interventi. Ma c’è anche l’emergenza dei disturbi alimentari tra i giovani, uno tsunami silenzioso che non trova una risposta sanitaria strutturata. Il sistema non riesce a farsi carico di questa domanda crescente di assistenza, che riguarda in modo particolare le ragazze, ma non solo. Eppure sono proprio loro la parte più preziosa della nostra società, in un paese che sta invecchiando e perde popolazione.»

Nel 2023 ha scritto “Chi ci curerà” e ora “No tu no”. Cosa è cambiato in questi due anni, secondo lei?

«Poco, purtroppo. I problemi che avevo messo in luce allora sono ancora tutti lì. È aumentata forse la consapevolezza, anche grazie all’esperienza della pandemia. Il Covid ha avuto un effetto rivelatore: ha mostrato chiaramente le falle del sistema sanitario, la fragilità dell’assistenza territoriale. Quando l’emergenza si è attenuata, ci siamo trovati davanti a una realtà in cui la rete delle cure fuori dall’ospedale era, ed è, insufficiente. Eppure, in un contesto di crescente cronicità, proprio il territorio dovrebbe essere il primo livello di risposta.»

È originaria di Taranto, una città simbolo delle contraddizioni tra sviluppo industriale e tutela della salute. In che modo la sua esperienza personale ha influenzato la visione delle disuguaglianze sanitarie raccontate in questo libro?

«È una domanda intima e profonda, che accetto volentieri. Taranto per me è una ferita aperta. È una città bellissima, ricca di storia, con un mare splendido e un paesaggio incantevole. Ma tutto questo è stato sacrificato. Taranto è stata, in molti sensi, un agnello sacrificale. Ha pagato un prezzo altissimo in termini di salute pubblica. L’acciaio serve, certo, ma per anni la città ha registrato tassi di mortalità altissimi per diverse patologie. Noi tarantini ce lo portiamo dentro, è scritto nel nostro DNA. E questa rabbia la elaboriamo come possiamo, cercando magari di trasformarla in qualcosa di utile. Nel mio caso, ha certamente influenzato le mie scelte, il mio impegno giornalistico e l’attenzione per questi temi sanitari e ambientali.»

Si occupa di giornalismo sanitario da oltre 15 anni. Quale ruolo ha questo giornalismo specializzato nel sensibilizzare l’opinione pubblica su temi come le disuguaglianze sanitarie?

«Un ruolo fondamentale. Il problema di certo giornalismo è che si limita a denunciare la mala sanità, ma spesso si dimentica di raccontare la buona sanità, che esiste ed è preziosa. Va difesa, valorizzata, raccontata. Certo, è giusto denunciare corruzione, inefficienze, storture: è un dovere. Ma dobbiamo anche far capire ai cittadini che c’è un patrimonio collettivo che rischiamo di perdere. E che va tutelato.»

Per concludere, cosa possiamo fare concretamente noi cittadini per influenzare una nuova direzione della sanità pubblica più equa per tutti?

«Dobbiamo chiederlo ai politici, votare, partecipare. E, allo stesso tempo, imparare a prenderci cura di noi stessi. La sostenibilità del sistema sanitario dipenderà anche dalla qualità del patto tra cittadini e servizio pubblico. Questo significa essere informati, aderire alle terapie, evitare richieste inutili. E soprattutto, essere presenti, consapevoli, politicamente attivi. Non bisogna mai smettere di chiedere che la salute torni ad essere una priorità.»

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