A Venezia, in piazza San Marco, l’unica vera piazza della città, bastano pochi passi verso il bacino. Superato il ponte della Paglia, la camminata lungo la Riva degli Schiavoni conduce al ponte della Pietà e quindi alla facciata neoclassica, aggiunta nel 1906, della chiesa di Santa Maria della Visitazione, detta della Pietà. Tra la chiesa e la calle sorge oggi l’Hotel Metropol, parte di un Istituto della Pietà ancora attivo. Siamo nel sestiere di Castello, e il luogo diventa immediatamente chiave di lettura della storia.

L’Ospedale della Pietà e le “putte”: disciplina, musica, potere

Venezia, primi anni del Settecento. L’Istituto detto Ospedale della Pietà accoglie bambine – e anche bambini – abbandonati. Il centro del racconto sono le ragazze, le orfane che vivono insieme secondo un’organizzazione guidata da una priora (Fabrizia Sacchi) e dal Governatore della Repubblica (Andrea Pennacchi), affiancato da un gruppo di nobili che decide economia e destino delle accolte. Tutte le orfane vengono istruite. Alcune lavorano in cucina, cuciono e tessono: sono le putte de comun. Altre vengono avviate alla musica: le putte da choro. Studiano solfeggio, leggono le partiture, suonano e cantano. La loro bravura richiede un maestro all’altezza.

Per questo viene chiamato il Prete Rosso: Antonio Vivaldi, interpretato da Michele Riondino. I concerti si tengono nella chiesa della Pietà: le ragazze, vestite di rosso, suonano e cantano dalle cantorie, dietro le grate, invisibili al pubblico di nobili e mercanti. Se il concerto piace, l’istituzione riceve sostegno economico: un equilibrio fondato su interesse reciproco.
Vivaldi arriva in gondola con il violino e la sua asma, che lo tormenta al punto da ottenere la dispensa dal celebrare la messa. Il primo incontro è brusco: un attacco lo coglie davanti alle ragazze, che restano attonite. Ma il maestro intuisce subito le possibilità: sono una trentina, sono brave, imparano in fretta.

Cecilia, il talento e la ferita

Una su tutte lo colpisce: Cecilia (Tecla Insolia). In una sonata osa qualcosa di diverso. «Perché ha scelto proprio me come primo violino?», chiede infastidita. «Perché non suoni per farti vedere», risponde Vivaldi.

Nasce un rapporto di fiducia e sperimentazione, privo di ambiguità: l’attrazione è tutta musicale. Cecilia è vivace e tormentata, ossessionata dal motivo del proprio abbandono. La “signora madre”, a cui scrive di nascosto lettere di fuoco, è la sua ferita aperta. Il vuoto si colma solo con il violino tra le mani. Una scena iniziale lo chiarisce con crudezza: la scoperta di una gatta che ha partorito, la tenerezza delle ragazze e il gesto spietato della priora, che getta i piccoli nel canale. Cecilia – e lo spettatore – prova dolore.

Vivaldi comprende una parte dell’anima di Cecilia e desidera che la musica diventi il suo tutto. Ma la regola incombe: alcune ragazze sono destinate al matrimonio. Tra queste viene scelta proprio Cecilia. Il nobile che la reclama è il militare Sanfermo (Stefano Accorsi), tornato dalla guerra contro i Turchi. Paga la dote e sostiene l’Istituto; in cambio, la sposa non potrà più suonare.

Per Cecilia è l’inizio del dramma. Non vuole smettere di suonare, sa che la madre non tornerà, si vede moglie di un uomo che non conosce. Chiede aiuto a Vivaldi, che tenta di proteggerla, ma gli interessi prevalgono. L’intervento del Governatore è decisivo: non si può offendere il nobile né rinunciare all’obolo. Anche la priora entra in campo con autorità. Poi la svolta: un atto violento e inatteso cambia il destino di Cecilia. La sofferenza è estrema, ma resta la possibilità della rinascita.

La regia di Michieletto: dal teatro al cinema

Regista è Damiano Michieletto, classe 1975, veneziano, formatosi a Ca’ Foscari e alla scuola Paolo Grassi. Uomo di teatro d’opera affermato a livello internazionale, considera Primavera la sua prima vera prova cinematografica. «A teatro muovi fisicamente il coro, al cinema muovi la macchina da presa», spiega, rivendicando una messa in scena che cambia con il punto di vista. La scelta del film è istintiva: musica e Venezia gli appartengono, ma l’impronta è volutamente contemporanea.

Primavera è liberamente tratto da Stabat Mater di Tiziano Scarpa (Premio Strega 2009). La sceneggiatura è di Ludovica Rampoldi, la fotografia di Daria D’Antonio, la colonna sonora intreccia Vivaldi e Fabio Massimo Capogrosso. Intensi Tecla Insolia e Michele Riondino, capaci di costruire un’intesa che evita i rischi della consueta dinamica maestro-allieva. Solida anche la prova di Andrea Pennacchi.

Luci e ombre di un film coinvolgente

Il film coinvolge profondamente, anche se in alcuni passaggi resta in superficie, come se toccasse le corde dell’anima lasciandone qualcuna muta. Emergono con chiarezza la nobiltà veneziana dell’epoca, i tramacci del potere, una crudeltà spesso superficiale. La sensazione di una società in declino è tangibile.

Visto in anteprima al cinema Giorgione e presentato alla Fenice, il film continua a risuonare anche fuori dalla sala. Venezia aveva quattro grandi Istituti: la Pietà, i Mendicanti, i Derelitti e gli Incurabili. I nomi bastano a raccontarne la funzione.

L’Istituto della Pietà esiste ancora come luogo di aiuto e accoglienza. Nato nel 1346 per opera del frate Pietruccio d’Assisi, accoglieva lattanti e bambini depositati nella “scafetta”, poi sostituita dalla ruota degli esposti, tuttora visibile accanto all’Hotel Metropol. Le putte da choro erano così brave da risultare, nei documenti, non solo esecutrici ma anche compositrici.

Vivaldi: ascesa, oblio, riscoperta

Vivaldi nacque a Venezia il 4 marzo 1678, in una famiglia numerosa. Fragile di salute, imparò la musica dal padre, violinista della Cappella Marciana. Insegnò alla Pietà dal 1703 al 1740, con interruzioni, componendo per le putte sonate e oratori dedicati alle singole musiciste.
Caduto in disgrazia, lasciò Venezia per Vienna, dove morì nel 1741, povero e dimenticato. La sua musica rimase nell’ombra per due secoli, fino alla riscoperta novecentesca grazie a studiosi e musicisti. Solo allora Vivaldi tornò davvero a noi.

Uscendo dal cinema, guardando l’acqua del canale, resta la frase di Cecilia: «Ho perso tutto, ma ho quello che mi serve: sono libera di inventarmi la mia vita». È qui che Primavera trova il suo centro emotivo, entrando in empatia con una storia individuale che parla di molte altre.
Il film esce nelle sale il 25 dicembre 2025.

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