Dal nostro inviato a Sanremo Matteo Dani il racconto della kermesse nazionalpopolare

Parlare o scrivere del Festival è come maneggiare una di quelle padelle bollenti che non sai mai da che lato prendere e dove l’unica cosa certa è che in qualche modo finirai per scottarti. Ma è bello farlo lo stesso. Prima, però, vanno chiarite un paio di cosette.

Disclaimer 1: possiamo davvero utilizzare il termine “gara” quando più della metà degli artisti e la quasi totalità degli ospiti è legata contrattualmente (direttamente o indirettamente) alla stessa casa di management di Baglioni? No, chiaramente. E per questo ringraziamo Ferdinando Salzano, la vera eminenza grigia del Festival.

Disclaimer 2: chi scrive non è un super esperto di musica né tantomeno un vocal coach. Quindi non aspettatevi giudizi tecnici su tonalità, voci più o meno calanti e stonature varie.

Bene, ora si può iniziare.

SANREMO

Toglietevi dalla testa l’idea che sia solo una competizione canora. No, Sanremo è qualcosa di più. È uno spaccato sociologico dell’Italia attuale, uno studio antropologico dove tutte le sfaccettature del nostro popolo riescono finalmente a trovare spazio per esprimersi. Dal cinico/colto che stronca tutto ciò che viaggia sotto Schopenhauer a chi si emoziona per il labbro tremulo di Nino D’Angelo, passando per gli anziani di Piazza Colombo che si ricordano quanto meno casino c’era nel ’79, fino a quella collega che durante le serate tira fuori la vaschetta della rosticceria con la pasta al forno appena comprata, saturando l’aria della sala stampa e attirandosi gli insulti di tutte le file addietro. Lei, ovviamente, stava nella prima. Anche senza mai entrare all’Ariston, passeggiare per Sanremo durante questa settimana è comunque uno spettacolo. Più ci si avvicina al sabato e più le strade cominciano a popolarsi di improbabili personaggi alla ricerca di qualcuno che li noti; un bailamme di nani, comici e cantanti desiderosi di nutrirsi anche degli ultimi barlumi di gloria riflessa che il Festival porta con sé.

Il direttore artistico Claudio Baglioni fra i conduttori Virginia Raffaele e Claudio Bisio

MAMMA RAI

Un plauso alla capacità di autocontrollo con cui dirigenti e direttore artistico, giorno dopo giorno, hanno schivato e glissato sulle troppe e inopportune domande fatte dai giornalisti su un immaginario conflitto di interessi (vedi disclaimer 1) che non ha assolutamente ragione di esistere e, anzi, è solo nella mente di chi vuole solo la sterile polemica e non si concentra sulle canzoni.

Signor Baglioni, sono andato bene così?

Bonus track: il Festival di Sanremo visto da vicino è un carrozzone davvero enorme. E girano i soldi. Quelli veri.

SALA STAMPA

Se la professione del giornalista è sempre più lanciata verso l’autoannientamento è principalmente colpa di chi quel tesserino lo possiede. Di chi si atteggia a grande censore (in questo caso della musica, ma vale per qualsiasi altro ambito) e poi si prostituisce nella maniera più vile per un pass o un accredito in più. A parte questa piccola nota personale, l’esperienza della sala stampa al Festival è bella, soprattutto quando arrivano i superospiti a cantare qualche pezzo evergreen e partono cori e accendini. La scena più bella, il giovedì sera, durante il medley Raf-Tozzi. Partono i primi accordi di Gloria e due colleghe di una certa età, che fino ad allora avevano vissuto la loro presenza lì come una sorta di cerimonia del tè molto compita, sbracano completamente togliendosi la giacchetta e rimanendo in smanicato a ballare con le ascelle al vento.

Sì, appunto, le ascelle. In sala stampa l’incubo peggiore non è fare una gaffe durante una domanda o accorgersi al termine di un’intervista di non aver registrato l’audio. No. L’incubo è l’ascella pezzata di sudore che compare a 13 minuti esatti dal tuo ingresso e ti accompagna poi per tutta la giornata. C’è un microclima importato direttamente dal delta del Mekong, l’aria è satura di umanità e al secondo giorno la carica batteriologica del locale è già a livelli di guardia. Ogni colpo di tosse è un potenziale untore. Un’esperienza, comunque.

SHOW E CANZONI

C’è del moscio all’Ariston. Possiamo dirlo? Pochi momenti di spettacolo vero, un Baglioni che ormai ha cantato tutto lo sciibile umano e autori che hanno finito di grattare il fondo della pignatta da un bel po’. Il risultato è la gag delle pernacchie. Una prece per chi l’ha pensata. Anche con le canzoni siamo messi così e così. Gli attimi davvero emozionanti si contano sulle dita di una mano. Personalmente mi aspettavo tantissimo da Motta e Cristicchi. Il primo mi ha deluso, il secondo pure, anche se il suo brano/interpretazione è comunque una delle cose più belle di questo Festival. Mi ero abituato troppo bene nel 2007.

Di Ornella Vanoni, Patty Pravo e Ötzi preferirei non parlare.

IL TRANSATLANTICO

La presenza di Achille Lauro è stata al tempo stesso la cosa più tremenda e più perfetta del Festival. Tremenda a livello di testo. Uno scarabocchio di nomi buttati lì per evocare un’atmosfera da “live fast, die young and leave a beautiful memory” che punta dritto al vuoto cosmico. Mi bevo Bukowsky ma non segno come Best, il mondo è tutto qua, senza quelli come Kurt. Oh, cavolo, credo di aver scritto una sua nuova strofa. Peccato perché, avendolo conosciuto, la sensazione è che possa puntare a qualcosa di più. Perfetta a livello di esposizione mediatica. Ogni sua esibizione è stata calcolata, nei modi e negli orari, perché di lui parlassero e discutessero tutti. Non serve che vi dica che ha lo stesso manager di Baglioni vero?

Achille Lauro

IL PODIO

Sorprese e polemiche. Sì. Ma qui ci vorrebbe un ulteriore disclaimer. Per voi Sanremo dovrebbe premiare solo la cosa migliore vista sul palco durante la settimana? Se è così non c’è dubbio che la Bertè meritasse un posto nel podio, se non addirittura la vittoria. Assieme ad Arisa. Se invece per voi Sanremo deve scegliere un nostro rappresentante che possa puntare alla vittoria all’Eurovision Song Contest, allora capirete perché tra i giornalisti serpeggiava il timore che il pacchetto perfetto per raggiungere quest’obiettivo fosse quello composto da tre giovani tenori con una canzoncina un po’ di merda e pronti ad alimentare ulteriormente lo stereotipo dell’italiano canzoni pizza e mandolino. E invece.

MAHMOOD

Mahmood con il primo premio

E invece vince Mahmood. Che è un po’ la Danimarca agli Europei del ’92. Presente perché vincitore della kermesse dei giovani a dicembre, non legato (se non alla lontanissima) al buon Salzano, porta un brano moderno e perfetto per la radio. E la sala stampa sorride. Perché in fondo la canzone era sempre piaciuta e lui, quando è passato a trovarci, è sembrato davvero una bella persona. Un po’ meno Ultimo, che per tutta la settimana ha disertato le nostre conferenze perché «non aveva voce». Chi parla di complotto politico, favore ai migranti e cazzate di questo genere non ha semplicemente idea di cosa ascoltino i quindicenni di oggi. Che magari sono i loro stessi figli. Per questi genitori ho idea che le sorprese non siano finite.

CONSIDERAZIONI FINALI

Tony Hadley che canta «Mi sento pene» è chiaramente una citazione di Weah nello spot della Roberts Noir.

«La bellezza delle cicatrici sta nel modo in cui si portano». Paola Turci in conferenza. Grazie.

Mohammed, Mammud, Mammut… chi ride per ‘sta roba qua si merita Il Volo. In loop. A vita.

Il nostro Matteo Dani in un’espressione disperata, dalla sala conferenze del Teatro Ariston di Sanremo