L’Italvolley femminile è una dinastia
Analizziamo il successo al Mondiale della Nazionale allenata da Julio Velasco: pregi, soprattutto, e qualche difetto di una squadra che rischia di rimanere a lungo al vertice.

Analizziamo il successo al Mondiale della Nazionale allenata da Julio Velasco: pregi, soprattutto, e qualche difetto di una squadra che rischia di rimanere a lungo al vertice.
La Nazionale femminile di volley corona con l’iride il percorso di soli successi avviato a Parigi 2024 e proseguito con la VNL 2025. Il trionfo mondiale conquistato in Thailandia domenica 7 aprile certifica che questa squadra oggi rappresenta non solo un gruppo vincente, ma una vera e propria dinastia sportiva, ben al di là delle 36 vittorie consecutive (striscia ancora aperta). Una Nazionale fresca, che piace, da guardare con ammirazione e studiare nei suoi elementi caratteristici.
Nel raccontare la storia di questa rassegna iridata si può velocemente soprassedere dal ripercorrere la fase a gironi e il tabellone fino alle semifinali. Il dominio azzurro nelle prime partite del torneo è stato, a tratti, imbarazzante. Tutto secondo le previsioni fino all’accoppiamento con la Polonia nei quarti, una selezione che, a livello di individualità, può competere con chiunque. Non con l’Italia ammirata in Oriente, però: troppo solida, troppo completa e in fiducia per tutti. Polonia dunque a casa con uno 0-3 senza repliche possibili.
Un capitolo a parte, invece, e molto lungo, può essere riservato alla semifinale Italia-Brasile. Il match, senza esitazione alcuna, può essere inserito tra le più belle e intense partite che la storia di questo sport ricordi. Il video sarebbe poi da guardare e riguardare in loop per carpire tutti i segreti delle due squadre, analizzare al rallentatore ogni fondamentale e quei gesti così difficili, resi banali da automatismi affinati negli anni e da una fisicità sempre più dominante anche in campo femminile. Quando poi questa espressione di valore sportivo si coniuga con l’incertezza e l’equilibrio di una gara secca per le medaglie, ecco che si ha la sensazione di assistere a un evento epocale. E così è stato.
Si potrebbe, poi, proseguire rimarcando l’applicazione tattica di un encomiabile Brasile che l’aveva studiata benissimo e ci aveva costretto ad attaccare, come si dice in gergo, in una “cabina telefonica” (22 i muri verdeoro). O inchinarsi alla bellezza estetica di ogni gesto eseguibile su un campo di pallavolo messo in atto da Gabriela Guimarães, in arte Gabi. Se esistesse un riferimento tecnico assoluto nella pallavolo bisognerebbe prendere lei, ma probabilmente sarebbe così anche se avesse praticato il decathlon, tale è la naturalezza con cui si muove ed esprime forza.
Ad oltranza sarebbero davvero infiniti i temi di questa gara, ma un dato su tutti va rilevato. Il Brasile ha giocato meglio, l’Italia ha vinto e con merito. Una considerazione apparentemente illogica, ma che rappresenta bene le qualità della nostra Nazionale, resiliente e focalizzata pervicacemente all’obiettivo finale. Coraggiosa e responsabile, esuberante e preparata. Forse anche fortunata, perché, come dice lo stesso coach Julio Velasco, tra vincere e perdere a volte è questione di pochi centimetri. Onore dunque ai vinti, quanto ai vincitori.
Turchia vs Italia, un classico degli ultimi anni. L’occasione della rivincita tra le due nazionali dopo la famosa semifinale europea 2023 che costò, di fatto, la panchina a Davide Mazzanti. Un match tra due dei tre opposti più dominanti del mondo, Vargas vs Egonu, ma anche un derby tutto italiano da rotocalco rosa tra Daniele Santarelli, coach turco e marito di “Moki” De Gennaro, libero azzurro. Dopo la semifinale ad alta usura di coronarie (dei tifosi) e articolazioni (delle giocatrici) occorre provare a mettere subito sui binari giusti la partita. Melissa Vargas, però, è di altra opinione e, ben coadiuvata dalle centrali, mette a ferro e fuoco la nostra difesa. A tratti è infermabile, specie nel secondo e quarto set. L’Italia si aggiudica primo e terzo parziale di misura. La Turchia dilaga, viceversa, nei set pari con disarmante facilità, mai vista in due anni di gestione Velasco.
Nonostante ciò e ringraziando la panchina (chiunque si alzi sembra nato pronto alla sfida), siamo e ci sentiamo in partita. Inoltre, le indisponenti esuberanze di Ebrar Karakurt in un mondo ideale dovrebbero essere punite, soprattutto di fronte alla compostezza delle nostre. Tuttavia, il mondo ideale va meritato e nel tie-break le azzurre perfezionano ciò che non era mai riuscito bene in questo torneo, ma è un abituale marchio di fabbrica di Anna Danesi e compagne. Quattro muri azzurri, infatti, scavano il solco tra Turchia e Italia per l’apoteosi finale. Un film già visto: le nostre giocano peggio, ma vincono. Nonostante sette punti in meno delle avversarie messi a terra, l’Italia si laurea campione del mondo.
Dopo le Olimpiadi, la VNL e ora il Mondiale, con un gruppo ampiamente proiettato al futuro per Los Angeles 2028, si può davvero parlare di una dinastia sportiva. Certo, queste valutazioni si possono fare con certezza solo a posteriori. Tuttavia, è innegabile che già ora la nazionale italiana rappresenti un modello di riferimento per tutto il movimento internazionale. Se osserviamo i dettagli, emerge chiaramente come questa squadra, a differenza di altre dinastie anche in sport diversi, non porti evidenti innovazioni generazionali.
Non introduce novità nel gioco. Anzi, propone uno stile che richiama quanto era stato già adottato ai tempi di Mazzanti. Tuttavia, tutto ciò che questa nazionale fa è caratterizzato da una efficienza disarmante, una continuità ineguagliabile, e questo vale anche quando le cose sembrano andare male. In sostanza, rende incredibilmente semplice ciò che semplice non è affatto, senza fronzoli, ma con una concretezza maniacale. Forse proprio qui risiede il segreto innovativo di questa dinastia: l’efficienza.
Per analizzare più nel dettaglio questa Nazionale occorre partire da suo comandante, condottiero, guida spirituale, motivatore e qualsivoglia altro appellativo. Julio Velasco racchiude nella sua figura e nel suo modo di interpretare il ruolo di selezionatore tutto ciò che vorremmo da un leader in qualsiasi contesto della vita pubblica non solo sportiva.
L’allenatore argentino è, infatti, prima di tutto un profondo conoscitore della pallavolo (competenza) che ha saputo vincere con generazioni diverse in uno sport profondamente cambiato negli ultimi trent’anni. Sa identificare gli obiettivi (chiarezza), li persegue con costanza (perseveranza) e, soprattutto, sa farsi seguire (comunicazione), trasformando concetti complessi in messaggi semplici, molto adatti all’epoca in cui hanno successo i tweet più che gli oratori di romana memoria. Velasco è poi un fine conoscitore dell’animo umano (psicologia), capace di motivare sia gruppi di uomini che di donne, gestendoli con equa diversità. Infine, non è affatto un buono, inteso come persona poco energica nell’affermare le proprie idee in un contesto in cui risultati sportivi, politica e vari equilibri da mantenere spesso fanno perdere la testa.
Questa nazionale, corretta, volitiva, che non si scoraggia mai e in cui ognuna sa assumersi le proprie responsabilità in autonomia, è la rappresentazione del proprio leader e del suo stile nella guida di un gruppo di lavoro, vincente senza che lui stesso lo consideri un valore assoluto.
Se Julio Velasco lo apprezziamo da quasi quarant’anni, non si può non trovare una certa somiglianza di stile con il meno conosciuto Darren Cahill, co-allenatore di Jannik Sinner. Sport diversi, caratteri diversi, per un paragone azzardato. Entrambi, però. hanno come marchio distintivo la moderazione e la capacità di essere sempre adeguati al contesto, oltre ad una capacità di analisi dell’evento sportivo eccellente. Entrambi, poi, hanno il carisma e lo charme tipici di chi ha una professionalità esperta e consapevole, mai ostentata e un ottimismo di fondo dato da una sana convinzione nelle proprie idee. Sono uomini normali di successo planetario che non mettono mai il successo stesso al centro del progetto, ma semmai il miglioramento come percorso indispensabile per acquisire più possibilità di vittoria.
Sono aspetti sui quali occorrerebbe riflettere perchè offrono spunti utili in ogni campo del vivere quotidiano e ci dicono quanta distanza corra tra questi modelli (peraltro vincenti) proposti da Velasco e Cahill e quelli sguaiati, inopportuni e volgari che in altri contesti a volte vengono proposti con altrettanta enfasi e in assenza di altrettante vittorie. Velasco è aria fresca, è fiducia verso la capacità di cambiamento (vedasi Paola Egonu), è volontà di non piangersi mai addosso, di cercare sempre la strada per migliorare, di assumersi le responsabilità con coraggio.
Se abbiamo dedicato a Velasco i meritati elogi, non possiamo dimenticare chi sta un passo dietro di lui. Massimo Barbolini, vice ct di questa Nazionale, è la classica eccellenza nascosta, ma di importanza fondamentale. Cresciuto proprio all’ombra di Velasco, Barbolini ha avuto una carriera brillante (ancora in corso), ricca di scudetti, Champions League e anche come selezionatore della nazionale maggiore. In questo ciclo azzurro si è messo a disposizione in un ruolo dietro le quinte, ma cruciale per consolidare l’autorevolezza dello staff dopo la precedente gestione Mazzanti (che in questo senso aveva incontrato qualche difficoltà).
Questa situazione di Barbolini vice ct, come molti altri elementi di questo gruppo, rappresenta come gli obiettivi, specialmente in uno sport di squadra, vadano perseguiti anche sacrificando un po’ del proprio ego. Puoi essere forte quanto vuoi, puoi aver vinto tutto, ma se c’è da stare un passo indietro, si sta. Una lezione per il pubblico, forse anche per qualche atleta della nazionale. Giusto per riflettere sulla questione e fare un ipotetico confronto: Antonio Conte e Massimiliano Allegri sulla panchina della nazionale di calcio insieme. Fattibile? Quantomeno improbabile.
Passiamo ora alle giocatrici. Velasco, sotto tortura giornalistica a fine competizione iridata, ha ammesso che farà l’impossibile per convincere il libero della nazionale italiana Monica De Gennaro a continuare con la maglia azzurra. Probabilmente è una bugia detta a fin di bene per rassicurare il tifoso, ebbro di gioia per il successo mondiale. L’allenatore argentino è uomo di sport, ma ha sempre guardato all’individuo prima che all’atleta e sa che il passaggio generazionale dovrà avvenire. Ora è meglio così, poi (tre anni pre-olimpici per affinare la formazione dell’erede sono un buon lasso di tempo).
Monica De Gennaro ha quindi chiuso con tutta probabilità la sua storia con la nazionale azzurra proprio in questo mondiale. Dopo Paola Cardullo, che sembrava essere il prototipo del libero ideale a inizio millennio, il nostro movimento ha prodotto qualcosa di ancora più vicino alla perfezione perché Monica è un’atleta che non si era mai vista sui campi da pallavolo.
Se il palmarès richiede troppe pagine per essere elencato (ma si può riassumere in “detiene quasi tutti i titoli”, tranne gli Europei), è a livello tecnico che può essere raccontata. Monica è l’eccellenza assoluta nel fondamentale della ricezione; le statistiche della Lega lo confermano con oggettività da molti anni. Pulita, costante, spesso vicina all’80% di positività in ricezione, un risultato quasi impensabile nella pallavolo odierna. In sintesi: in battuta va evitata, sempre. Se poi guardiamo alla difesa, non siamo da meno. Lettura tattica, posizionamento, equilibrio, sensibilità, capacità di gestire situazioni acrobatiche senza ostentazioni. Anche qui, eccellenza.
Monica, però, negli anni ha aggiunto una precisione in alzata senza eguali, paragonabile ai migliori registi di ruolo. Già con Davide Mazzanti, selezionatore, aveva la libertà di creare (vedasi le “7” con Anna Danesi); ora è davvero il regista aggiunto di ogni squadra in cui gioca. Vogliamo aggiungere qualcosa? Mai una parola fuori posto, mai un atteggiamento da diva e, dopo centinaia e centinaia di gare, lo stesso sguardo focalizzato sul momento e sulla palla come una ragazzina che deve giocarsi il posto. Un esempio, se ce n’è uno.
La sua eredità sarà difficile da raccogliere, ma lo avevamo già detto dopo Cardullo. Eleonora Fersino può rappresentare un futuro promettente, c’è da esserne certi.
La trovata maturità di Egonu
Tra i fattori chiave della vittoria di questa nazionale c’è la definitiva consacrazione di Paola Egonu. Nessuno aveva mai dubitato delle sue qualità, semmai le si imputava una certa ritrosia nel lavoro di squadra e una volontà non ossessiva di migliorarsi nei dettagli. In questa estate plurivittoriosa, Paola ha clamorosamente smentito i suoi detrattori grazie ai propri meriti e a un complesso squadra che ha valorizzato i talenti dell’atleta nata a Cittadella (Pd) e nascosto le sue poche e ormai croniche lacune. Da un lato l’opposta italiana ha offerto prestazioni convincenti e, a tratti, dominanti; dall’altro ha accettato di condividere il ruolo con Ekaterina Antropova. Julio Velasco si è così trovato nella possibilità di utilizzare un’arma dominante nel campo femminile, se interpretata dai giusti atleti: il doppio cambio.
Carlotta Cambi (un cognome, un destino) e appunto Antropova hanno garantito alla nazionale azzurra la possibilità di accelerare nei finali di set o di avere un “piano B” in caso di difficoltà durante i match. Le semifinali con il Brasile (3-2) e la finale con la Turchia (3-2) sono gare che ricorderemo per intensità e incertezza, ma soprattutto per l’utilità del doppio cambio.
La nazionale italiana con Egonu e Antropova ha davanti a sé un futuro molto stimolante per molti anni, anche perché, dietro queste campionesse, stanno crescendo tantissimi talenti di spessore internazionale (vedasi le performance di Merit Adigwe a livello giovanile), a patto che le atlete sappiano accettare situazioni come quelle vissute in questo biennio.
Come Simone Giannelli nel vittorioso Mondiale 2022, anche la palleggiatrice Alessia Orro è stata nominata migliore giocatrice del torneo iridato. In realtà non è stato un riconoscimento condiviso da tutti (ci torneremo tra poco), ma è innegabile la crescita della nostra atleta, che oggi non ha nulla da invidiare a nessun’altra regista internazionale, ad eccezione, forse, della polacca Joanna Wołosz. Se un alzatore va valutato prima di tutto per le alzate, sia a livello di precisione che tattico, senza dubbio occorre anche riconoscere che Orro è oggi uno dei migliori difensori al mondo (determinanti in questo mondiale alcuni suoi interventi difensivi), una giocatrice di livello a muro e una battitrice efficace.
La scelta di attribuire a lei il titolo di MVP ha scontentato qualche appassionato per due motivi principali. Il primo riguarda alcuni momenti di difficoltà di Alessia durante gli ultimi due atti del torneo, nonostante fosse condizionata da un problema alla caviglia. Il secondo motivo è che molti avrebbero preferito come MVP Miriam Sylla. L’attaccante di posto quattro italiana ha dominato agonisticamente con la solita energia che, quando supportata da un buon stato di forma psicofisico, diventa travolgente. Inoltre, è migliorata anche in ricezione, un aspetto che avrebbe potuto davvero garantirle il premio individuale della rassegna iridata.
Che sia Alessia o Miriam l’MVP poco importa: il fatto che una l’abbia vinto e l’altra lo avrebbe meritato conferma che questa nazionale ha campionesse in tutti i ruoli.
Julio Velasco ha già confermato che resterà al timone. Parole sue: non allenerà fino agli 80 anni, ma la prossima Olimpiade è nel mirino e nella sua testa forse già dall’alloro di Parigi 2024 (la scelta di lasciare a casa Caterina Bosetti va vista anche in questo senso). Tre anni nella pallavolo femminile, in cui i ricambi generazionali in media avvengono un po’ più velocemente che in ambito maschile, sono davvero molti e proseguire questa striscia di successi non sarà facile. I presupposti, però, ci sono.
Della profondità nel ruolo di opposto abbiamo già parlato, ma anche a centro rete siamo ampiamente coperti. Forse il punto debole può risiedere in regia dove, tra Orro e le altre, un po’ di distanza oggi c’è e non sarebbe affatto facile sopperire a un’eventuale assenza dell’atleta sarda. Infine, in posto quattro quantitativamente siamo ben messi, molte giovani (tra cui le ottime Stella Nervini e Gaia Govannini) andranno valutate nel loro sviluppo a livello internazionale, mentre le speranze che Elena Pietrini e Julio Velasco si trovino bene sono piuttosto basse. Lunga vita, dunque, a Miriam Sylla che fino a Los Angeles arriverà senz’altro.
Rimane la suggestione Antropova da banda, ma per ora è solo una suggestione, più volte smentita dallo stesso Velasco. Certo, investirci un anno di lavoro con il benestare del club di appartenenza (che dovrebbe avere la compiacenza di utilizzarla nello stesso ruolo) potrebbe avere un senso. Per ora rimane solo e soltanto una suggestione, buona per sognare un sestetto che piacerebbe molto agli appassionati, ma che sarebbe molto meno affine allo stile e alle idee del comandante Velasco.
L’ultima considerazione riguarda alcuni aspetti di programmazione. Alcune atlete hanno bisogno di riposo nelle prossime estati, specie nel 2026. Servirà gestirle con intelligenza e lungimiranza, magari sacrificando un pò l’invincibilità azzurra e cogliendo l’occasione per far maturare esperienza ad altre atlete. Egonu, Sylla, Danesi e Orro su tutte dovranno alternarsi e lasciare spazio ad altre forze fresche. Solo così potremmo pensare di arrivare a Los Angeles con le sufficienti energie mentali e una rinnovata volontà di competere nel modo che abbiamo ammirato in questi mesi.
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