Nella nostra cultura, sotto la superficie della parità formale, sopravvive una distinzione profonda e antica: la madre come fulcro della cura, il padre come figura accessoria, la cui funzione di accudimento della prole si attiva solo in caso di necessità o assenza della madre. Questo schema è ancora ben radicato nelle norme, nelle prassi e nelle rappresentazioni sociali — come mostra in modo emblematico il diritto penitenziario italiano.

In carcere, le madri con figli piccoli hanno accesso a misure alternative che riconoscono e tutelano il loro ruolo affettivo e accudente. I padri, invece, possono accedere a tali misure solo se la madre è assente, impossibilitata o se non esistono altri adulti “affidabili”.
Ma non è solo il padre a subire le conseguenze di questo sbilanciamento. Anche la donna, ancora una volta, viene inchiodata al ruolo esclusivo di madre e caregiver, anche in situazioni in cui dovrebbe o potrebbe condividere tale responsabilità.

La conseguenza è che il sistema continua a rafforzare un’idea tradizionale di famiglia che, lungi dall’essere neutra o protettiva, penalizza tutti: i padri, le madri e soprattutto i figli.

L’Ordinamento Penitenziario tra paternità e maternità: il caso degli artt. 47-ter, 47-quinquies, 14 e 21-bis O.P.

L’Ordinamento Penitenziario (O.P.) italiano (L. 354/1975) prevede diversi modi di accedere a misure alternative alla detenzione pensate per tutelare il legame tra il detenuto e i figli minori consentendo l’esecuzione della pena presso il domicilio, con prescrizioni che ne limitano la libertà. Tuttavia, tali misure rivelano un trattamento asimmetrico tra madri e padri.

  • L’art. 47-ter, comma 1, lett. b) prevede la detenzione domiciliare ordinaria per la madre convivente con figlio minore di 10 anni, estesa al padre “solo se la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata a prendersi cura del figlio”.
  • L’art. 47-quinquies prevede la detenzione domiciliare speciale per madri condannate con figli minori di 10 anni, anche nei casi di pene lunghe o ergastoli, purché non sussistano pericoli di fuga o recidiva. Il padre può accedervi “solo se la madre è deceduta o impossibilitata, e non vi sia modo di affidare il minore ad altri che a lui” (comma 7).
  • L’art. 21-bis O.P. autorizza programmi di trattamento esterno o lavoro fuori dal carcere specificamente per tutelare il rapporto tra madre e figli, e nuovamente recita che “la misura dell’assistenza all’esterno può essere concessa, alle stesse condizioni, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre.”
  • Su una scia analoga, ma all’interno delle carceri, l’art. 14 O.P. disciplina la presenza di sezioni nido di cui possono usufruire le detenute degli istituti penitenziari, consentendo la convivenza tra madre detenuta e figli fino a 3 anni. Nessuna misura analoga è prevista per i padri detenuti, nemmeno nei casi in cui siano l’unico genitore disponibile.
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Il paradosso della protezione: si tutela il minore o si rafforza un modello materno stereotipato?

Le misure pensate per tutelare il benessere dei minori, soprattutto in ambito penitenziario, sembrano concentrarsi quasi esclusivamente sul legame madre-figlio, come se fosse l’unico davvero rilevante o degno di essere preservato. Il rapporto padre-figlio, invece, resta spesso sullo sfondo: viene riconosciuto solo quando la madre è assente o inadeguata, e solo se non ci sono alternative.
Ma tutelare il minore significa davvero tutelare solo il legame con la madre?

Anche sul piano costituzionale emerge una certa asimmetria: l’articolo 31 della Costituzione, ad esempio, nel parlare dell’importanza di agevolare la formazione di famiglie, afferma che “la Repubblica […] protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù”. La paternità non viene mai nominata. E se è vero che la tutela della maternità ha una sua ragion d’essere storica e sociale, è altrettanto vero che, oggi, questa omissione rischia di consolidare un’idea monogenitoriale della cura, dove il padre è ancora percepito come marginale rispetto ai compiti affettivi ed educativi.

Il risultato è che la legge — anche quando intende proteggere i più piccoli — finisce spesso per rafforzare un modello culturale rigido e anacronistico della maternità, più che una vera attenzione al benessere del minore, che invece richiederebbe uno sguardo aperto sulla qualità della relazione, a prescindere dal genere del genitore.

Un retaggio patriarcale travestito da protezione

Paradossalmente, l’idea che la madre debba essere più presente nella vita del minore, e che il padre possa occuparsi del figlio solo in sostituzione della madre, non è frutto di un’ottica progressista — ma spesso del suo contrario.

Si tratta, infatti, di una proiezione di lungo corso della mentalità patriarcale tradizionale, in cui la madre è la figura naturalmente destinata all’accudimento diretto, corporeo ed emotivo, mentre il padre è collocato in posizione tangenziale rispetto alla diade madre-bambino, con il compito di sostenere economicamente la famiglia e garantire protezione dall’esterno.

In questo modello, il padre è il garante della stabilità, ma non della tenerezza; è la legge, non la cura; è colui che provvede, non colui che accudisce.
Tuttavia, questa attribuzione rigida di ruoli ha un prezzo altissimo: svaluta il padre come figura affettiva e rende la madre l’unico riferimento relazionale pienamente legittimato, sovraccaricandola al contempo di aspettative e responsabilità.

Così, anche nel diritto penale e penitenziario, il legislatore può finire — più o meno inconsapevolmente — per ratificare una visione conservatrice e stereotipata della famiglia, senza mettere in discussione i presupposti culturali su cui si fonda.

Madre, padre… o caregiver? Il linguaggio della teoria dell’attaccamento

Anche la teoria psicologica dell’attaccamento, nella sua formulazione classica, ha contribuito a rafforzare alcune dicotomie di genere. John Bowlby parlava esplicitamente della madre come figura primaria di attaccamento, identificando la qualità della relazione precoce con essa come determinante per lo sviluppo affettivo del bambino.

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Successivamente, gli sviluppi teorici e la ricerca empirica — specie a partire dagli anni ’80 con gli studi di Michael Lamb e altri — hanno portato a una revisione di tale approccio. Oggi si tende a parlare più propriamente di caregiver primario, riconoscendo che sia il padre sia la madre — così come altri adulti significativi — possono costituire una base sicura e una figura d’attaccamento coerente, responsiva e sensibile.

Le funzioni di accudimento, protezione, regolazione affettiva e contenimento non sono proprietà esclusive di un sesso, ma qualità relazionali che si costruiscono con la presenza, l’intenzionalità e la reciprocità.

Il padre può offrire contenimento emotivo, dolcezza, accudimento fisico. La madre può essere autorevole, normativa, orientata al confine e alla regolazione. Entrambi possono incarnare, in momenti diversi, le diverse polarità del prendersi cura.
Pertanto, continuare a trattare il padre come un genitore “aggiunto” o “sostitutivo” significa restare prigionieri di un linguaggio e di un modello familiare che non corrisponde più alla realtà psicologica e sociale contemporanea.

Uscire dal sistema

L’idea che il padre sia un genitore “di riserva” non solo impoverisce la sua possibilità di essere figura affettiva attiva e riconosciuta: consolida anche una visione riduttiva della donna, sempre e comunque responsabile della cura, anche in situazioni estreme.
Quando un uomo in carcere non può essere considerato un caregiver, anche se è presente, disposto e capace, si sta dicendo — tra le righe — che è solo la donna a doversi occupare dei figli, anche quando questo significa sobbarcarsi contemporaneamente lavoro, responsabilità economiche e cura quotidiana.

Cambiare questa logica non significa “fare spazio ai padri” togliendolo alle madri. Al contrario: significa uscire da un sistema che costringe entrambi i genitori in ruoli rigidi e spesso ingiusti.
Significa riconoscere che un padre può essere una figura contenitiva, empatica, stabile; e che una madre può non voler o non poter sostenere da sola l’intero carico familiare.
Superare questa disparità sarebbe un atto di giustizia non solo verso i padri, ma anche verso le donne: significherebbe riconoscere il diritto a una genitorialità condivisa, e il valore di una cura che ha radici nell’impegno, nella presenza, nella relazione.

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