La coppia, tutta inglese, Danny Boyle (Trainspotting, The Millionaire,127 ore) e Alex Garland (Ex-machina, Annientamento, Civil War), rispettivamente regista e sceneggiatore del film, tornano insieme nel Regno Unito infetto con “28 anni dopo”, terzo capitolo della saga, portando una ventata d’aria fresca nel panorama horror. 

Dopo un prologo sensazionale e spietato (che ai fini della trama è meglio non raccontare, anche solo per gustarsene appieno l’esperienza cinematografica), il film fa un salto di, appunto, 28 anni, su una piccola isola poco distante dalle coste inglesi abitata da una numerosa comunità. Nello stacco temporale il film spiega che, sì, il virus scoppiato nel primo film (a causa di un gruppo di ecologisti che liberano da un laboratorio di Cambridge delle scimmie infette dalla rabbia) è arrivato nel resto d’Europa ma che è anche stato respinto con successo dal continente. Facendo così Garland ci tiene a rimanere coerente con quel finale aperto (non suo) presentato nel secondo capitolo, “28 settimane dopo”, evitando confusionarie operazioni di retcon.  

Dopo le mille peripezie dei due film, ora il Regno Unito è in totale quarantena e niente esce o entra. Per lo stesso principio per cui se c’è un topo in cucina, non si cerca di salvare il salvabile, ma bensì si brucia l’intera cucina.  

Quindi, autoisolati dall’isola, su un’isola (lo spettro della Brexit aleggia per gran parte del film), i nostri protagonisti ci vengono presentati in un classico cottage inglese mentre fanno colazione. Il figlio, Spike (Alfie Williams), il padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) e Isla, la madre, interpretata da Jodie Comer. Per Spike è il grande giorno, dovrà andare sulla terra ferma insieme al padre e compiere le sue prime uccisioni di infetti (ormai visti come degli animali feroci) e capire come gira effettivamente quel mondo. Quella di Spike, però, è tutto tranne che una famiglia tranquilla. La madre ha sbalzi d’umore, forte febbre, problemi di memoria e l’atteggiamento di Jamie è di disinteresse nei confronti della moglie. Il giovane protagonista nella prima parte del film si sente schiacciato tra queste due personalità: la madre, affettuosa nei suoi confronti e sempre più bisognosa di cure e il padre, premuroso ma freddo, impuntato a rendere suo figlio un vero sopravvissuto e un vero abitante della comunità formatasi nell’isola. Comunità che il film ci fa capire essere tornata indietro a uno stato di natura quasi medioevale (grazie a uno splendido montaggio a cura di John Harris, che, tra l’altro, per un’ora e cinquantacinque minuti non annoia mai), rifiutando la medicina e altre forme di modernità. Il film segue quindi il percorso di Spike nella terra infetta mostrando le sue scoperte, i suoi dolori e la sua determinazione nel trovare una cura per i dolori della madre.  

Figlio del primo film (28 giorni dopo-2002) e forse fratellastro del secondo (28 settimane dopo-2007) questo terzo capitolo della saga, riporta gli spettatori nel Regno Unito in piena quarantena che abbiamo cominciato a conoscere con quelle storiche scene della Londra fantasma nel lontano 2002. È figlio del primo capitolo certo, ma è un figlio cresciuto ed è conscio di quanto suo “padre” avesse sperimentato a inizio Duemila e quanto “lui” debba farlo ora, sfruttando nuove tematiche e nuove tecnologie. È invece fratellastro del secondo film, del regista spagnolo Juan Carlos Fresnadillo, perché, anche se entrambi sono dei sequel, di “28 anni dopo” ne si sente maggiormente l’originalità e la voglia di ripartire da zero con una nuova storia. Detto questo, però, è un film che si regge molto bene su sé stesso anche per lo spettatore a cui mancano i due capitoli precedenti (da recuperare tuttavia, perché rimangono due ottime opere). 

“28 anni dopo” si prende due rischi non da poco: essere un sequel di un film che ha reinventato il genere e portare sullo schermo uno scenario visto molte (troppe) volte, quello dei sopravvissuti in un mondo apocalittico. Lungi dall’essere perfetta, questa pellicola schiva questi due rischi e, grazie al suo regista, lo spettatore riesce a immergersi perfettamente nella trama. Ma non grazie al realismo, bensì grazie al suo contrario; il regista di Trainspotting quasi ci tiene a ricordarci che siamo in un film e ricorrendo alla tecnica dello zoom e a scene di uccisioni riprese da più angoli lo spettatore deve sempre tenersi pronto, visivamente, a tutto.  

Boyle, infatti, capisce che il genere è da galvanizzare e lo fa nella maniera che più gli si addice: velocità, frenesia, rabbia, violenza e contrasti. Proprio il contrasto è la chiave dell’aspetto tecnico del film; basti pensare all’utilizzo delle musiche, non sono mai al loro posto, e perciò sono perfette. La colonna sonora degli Young Fathers è pura anarchia e durante il film continua a sorprendere, passando dalla solennità all’inquietudine e dal commovente al quasi scanzonato nel giro di poche scene. Ma d’altronde il contrasto è il pane quotidiano dei film di Danny Boyle, e proprio per questo solo lui poteva riportare sul grande schermo questa saga, perché non è interessato alla serialità del progetto, non vuole semplicemente spaventare con del sangue o autocitarsi, vuole dirci che il cinema (popolare e horror) è ancora vivo e ha ancora molto da dire. 

Questo contrasto sorge anche nel voler rendere l’opera una sorta di film totalmente digitale. Se già con “28 giorni dopo” Boyle regalava al genere un nuovo tipo di regia, ovvero il completo uso di videocamere digitali, con questo terzo capitolo, oltre a far tornare quell’effetto quasi amatoriale (sono state girate delle scene con 20 iPhone contemporaneamente!), lo sperimentalismo si sente nell’accostamento con il mondo videoludico. Certe scene di uccisione degli infetti ricordano quelle di un videogioco, o anche i movimenti del cosiddetto Alfa (infetto a capo di un branco) sembrano riportare alle più tipiche boss fight videoludiche, proprio per le sue movenze quasi robotiche. Bisogna ammettere che questo accostamento a tratti stona con ambientazione e tematiche e viene rappresentato (in una scena d’azione in particolare) con degli effetti visivi per nulla al passo con i tempi (forse intenzionalmente?).  

Inoltre, quel topos trito e ritrito, dei sopravvissuti a un passo dal perdere l’umanità, traspare anche nei personaggi principali. Nessuno è effettivamente come sembra. Jamie, non è Joel di The Last Of Us, o Wolverine in Logan, non è la classica figura paterna che non sa parlare con il figlio, anzi, ci comunica, lo incoraggia se sbaglia, lo aiuta e lo capisce, e in questo bisogna lodare le capacità attoriali di Aaron Taylor-Johnson, molto convincente nel ruolo di un giovane padre quasi iperattivo e sempre pronto all’azione. Stesso discorso per Isla; Boyle e Garland hanno avuto l’accortezza di non rappresentarla semplicemente come una pazza in preda al panico per tutto il film. Jodie Comer porta sullo schermo una delle figure materne più convincenti degli ultimi anni, commuove e a tratti fa sorridere, si riconferma essere una delle attrici migliori in circolazione. Per non parlare di Ralph Fiennes, che appare nel terzo atto, nei panni del Dottor Kelson, personaggio intriso di filosofia e di poetica.  

Zombie o infetti? 

Ovvero il grande dilemma che gira intorno a film come questo o a videogiochi come il già citato The Last Of Us. La polemica che la “saga dei 28” si trascina dietro da quando esiste concerne il fatto che la figura dell’infetto corre invece che camminare e che la trasformazione, per avere effetto, richieda pochi secondi. Ora, potranno sembrare piccolezze ma è necessario fare dei chiarimenti. Lo zombie cinematografico più influente e più importante (e forse anche il primo) è quello creato da George Romero e John Russo con il capolavoro del 1968 “Night of the Living Dead”. Senza dilungarsi troppo sul magnifico mondo di queste figure romeriane basti sapere che lo zombie viene concepito come un non-morto eè quindi caratterizzato da una certa lentezza nel camminare, cosa che lo rende alquanto spaventoso. Questo è quello che si consolida nell’immaginario collettivo. Ma il fatto che i film di Boyle siano in contrasto con quelli di Romero è un bene. L’infetto da rabbia, in “28 giorni dopo” e seguenti, è una rivisitazione completa del tema e il fatto che corre è proprio parte del messaggio per cui l’elemento di violenza, quasi animale, è insito in tutti gli esseri umani. È lontano dal non-morto di Romero in quanto pienamente vivo nel senso più primordiale della parola.  

Con un suo sequel già alle porte (28 years later: the bone temple) “28 anni dopo” è un’opera che, rischiando, fa qualche scivolone ma rimane un ottimo film di apertura per quella che sembrerebbe una nuova trilogia (il quarto capitolo ha già trovato una regista, Nia DaCosta, e sembrerebbe confermato il ritorno di Cillian Murphy nei panni di Jim, tornato per ora solo come produttore esecutivo). 

Non è un film ordinario, bisogna premetterlo, ma proprio per questa sua anima punk e irriverente si salva dal mare (in piena) di seguiti, remake e reboot di saghe storiche fatti per riempire le tasche delle major. Grazie alla sua originalità Boyle, Garland e tutta la truppa portano sul grande schermo un esempio di cinema che osa e che si ribella. Da vedere!

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