Ho partecipato sabato 1° marzo all’anteprima del Festival del Giornalismo di Verona dedicata al tema delle dipendenze. Bene ha fatto l’Associazione Culturale Heraldo a scegliere, nell’ambito di un festival dedicato al giornalismo, un tema che è fondamentale approfondire anche sul piano comunicativo. Il fenomeno dipendenze sta assumendo una valenza sociale rilevante presentandosi sempre più come un micidiale mix di forme vecchie e nuove di dipendenza che si mescolano a disturbi psichici in un disperato intreccio fra fuga da una realtà percepita vuota di senso e ricerca di una illusoria ricompensa immediata.

Un vero e proprio “mal di vita contagioso”cui la recente pandemia e il modo con il quale è stata affrontata ha fatto da moltiplicatore. Per impegni pregressi non sono riuscito a seguire tutti gli interventi del ricco programma pomeridiano. Da quelli che ho potuto ascoltare l’impressione ricavata è che sia rimasta inevasa una domanda importante: che rapporto c’è fra una società che spinge forsennatamente verso la più totale autonomia individuale ed il fatto che sempre più persone e sempre più precocemente cadono schiave di una molteplicità, come li chiama la filosofa Michela Marzano, di “partner inumani” (droghe, cibo, psicofarmaci, oggetti tecnologici, gadget, alcool, immagine di se stessi, stili di vita.…).

Mi è sembrato, cioè, che la rappresentazione della dipendenza sia rimasta circoscritta all’ambito dei disturbi/patologie personali (disturbo cronico-recidivante come la definisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità) da trattare con degli interventi, appunto, “sulla” persona, da parte di esperti e strutture qualificate per le quali vengono spese la maggior parte delle risorse finanziarie a disposizione.

Un approccio che espone, a mio parere, ad una serie di rischi. Sfugge in primo luogo tutta la dimensione “relazionale”, quella cioè in grado di aiutare a capire come la dipendenza trovi il suo terreno di coltura nell’area dei rapporti di vita fra la persona con le sue peculiari caratteristiche e il “mondo” intorno a se trovando alimentazione nel bisogno forte, che da sempre accompagna il “cammino umano”, di evadere, di rischiare nella ricerca di realizzare se stessi e di perseguire una propria felicità. E insieme alla dimensione relazionale restano in ombra approcci come quelli basati sull’auto aiuto e sulla riduzione del danno.

Foto di Walter Cainelli

Diventa difficile, di conseguenza, capire come gli attori principali della fuoriuscita dalla dipendenza non siano i terapeuti ma le persone stesse che soffrono il problema e come il terreno principale di questa “lotta” sia quello relazionale costituito dai rapporti della persona con tutto il resto intorno a se, compresi i servizi, all’interno di un “setting” costituito principalmente non tanto dalle strutture specialistiche ma dalla stessa vita reale. Un terreno sul quale siamo parecchio deficitari dal momento che il sistema dei servizi, non tanto per mancanza di risorse quanto soprattutto di una visione adeguata, fa sempre più fatica a pensare in termini di percorsi/progetti di vita e di reti di supporto da costruire sul territorio e che siano attrattivi e motivanti più del mondo-altro delle dipendenze.

Povertà degli ambiti territoriali che finisce spesso tra l’altro per vanificare, come bene hanno sottolineato anche gli operatori delle comunità che sono intervenuti, gli stessi risultati raggiunti con i trattamenti specialistici. Continuare a inquadrare l’approccio alle dipendenze nel tradizionale paradigma “patologia individuale-trattamento professionale-farmacologico” non aiuta, infine, a capire perché tante persone, soprattutto giovani, rifiutano di rivolgersi ai Servizi per le dipendenze e ai trattamenti residenziali nelle comunità e lascia con ben poco da dire ai rispettivi contesti familiari che sempre più vivono sensi di colpa, difficoltà a comprendere, abbandono, solitudine, incertezza negli affetti e nell’esercizio dei rapporti quotidiani.

Servirebbe, a mio parere, allargare la comune riflessione a paradigmi che aprano ad una lettura altra e ad un diverso modo di affrontare il fenomeno dipendenze rimettendo al centro il binomio soggettività-reciprocità, riequilibrando il rapporto fra saperi specialistici e saperi esperienziali, ritrovando un senso di impiego per tutto il patrimonio di risorse che gli ambiti personali, familiari e sociali possono mettere a disposizione, cosa che porterebbe anche ad un bel vantaggio sul piano economico.

Visti i tempi che corrono, non guasterebbe affatto.

Ernesto GuerrieroAssociazione Self Help San Giacomo

© RIPRODUZIONE RISERVATA