Ogni volta che mi ritrovo a parlare con qualcuno che ha visto Furiosa: A Mad Max Saga, l’argomentazione che emerge più spesso è «Chiaramente non è Mad Max: Fury Road». L’ho detto anch’io uscito dalla sala la prima volta, ma ora mi rendo conto che è un paragone che non ha nemmeno senso fare: sarebbe come parlare di 2010: L’anno del contatto e dire «Certo, non è bello come 2001: Odissea nello spazio».

Uscito ormai nove anni fa, Mad Max: Fury Road si è imposto in breve come uno dei film più importanti dello scorso decennio, una pietra miliare del cinema d’azione e non solo. Il classico caso in cui una convergenza di fattori, sia fortune che sfighe apocalittiche, hanno portato alla realizzazione di qualcosa di unico, un perfetto distillato di cinema, che, nella sua forma più pura, è più Buster Keaton che David Mamet. Alfred Hitchcock diceva che il suo scopo era realizzare film che non necessitassero dei sottotitoli anche se visti dagli spettatori giapponesi. Fury Road è esattamente questo, e fa impressione pensare che sia stato realizzato da un regista all’epoca quasi settantenne, girato per nove mesi nel mezzo del deserto della Namibia, senza un vero script ma solo una gran quantità di storyboard iper-dettagliati, contro ogni possibile ostacolo gettato alla produzione da uno studio preoccupatissimo.

Il risultato non si poteva battere, né tantomeno replicare, e George Miller – ora quasi ottantenne, ricordiamolo – lo sapeva bene. E così non ci ha nemmeno provato, optando invece per realizzare un film che, sotto certi aspetti, è diametralmente opposto a Fury Road. Laddove quest’ultimo si svolgeva nell’arco di due/tre giorni, Furiosa abbraccia un periodo di quindici anni ed è un film decisamente più “narrativo” in senso canonico. Fury Road asciugava tutto fino al parossismo, concentrato com’era a raccontare una storia solo attraverso l’azione e la gestualità – al punto da far impazzire gli attori, che dovevano eseguire spesso gesti meccanici e avevano troppo poche battute per capire il contesto generale. Furiosa invece di dialoghi ne ha parecchi, quasi tutti affidati a Dementus, il signore della guerra interpretato dal naso di Chris Hemsworth.

Miller si riserva però di mantenere un suo vezzo: il personaggio che parla meno è la protagonista Furiosa, interpretata per un’ora buona da Alyla Browne (che somiglia in maniera impressionante a una piccola Charlize Theron) e a un certo punto da Anya Taylor-Joy. Anche qui sono le azioni a definire Furiosa, e sono le scene d’azione a definire i rapporti tra i personaggi e a farli evolvere: è durante una magistrale sequenza di assalto alla diligenza che Furiosa forma un’alleanza con Praetorian Jack (Tom Burke), che diventerà il suo socio inseparabile sulla Fury Road per gli anni a venire. Ogni scena d’azione di Furiosa è complessa, composta da pezzi in movimento che si svolgono in parallelo, si incastrano e si separano, e fanno evolvere la trama più dei dialoghi stessi.

Furiosa: A Mad Max Saga nasce da una sceneggiatura che George Miller e Nick Lathouris avevano scritto già all’epoca di Mad Max: Fury Road, una sorta di bignami da consegnare a Charlize Theron affinché capisse la backstory del suo personaggio. Siccome il film era praticamente privo di esposizione, Miller pensò che quello fosse il modo migliore per dare a Theron qualcosa a cui appigliarsi, un po’ di contesto in mezzo al caos. Chiaro, Tom Hardy non ne aveva bisogno: di Mad Max esistevano già tre film a cui rifarsi. Eppure questa attenzione al personaggio di Furiosa la diceva lunga su chi, tra i due, fosse il vero protagonista del film.

Tutto questo per dire che di Furiosa: A Mad Max Saga non c’era davvero bisogno: Fury Road era già il film su Furiosa. Eppure George Miller è riuscito a evitare tutte le trappole dei prequel. Mi rifaccio a un concetto espresso dal collega Nanni Cobretti su i400Calci: i prequel in genere pensano di farla franca raccontandoti la parte meno interessante della vita di un personaggio, quando, per giunta, quel personaggio non era ancora diventato interessante.

L’altro problema dei prequel è che in genere cercano di spiegare TUTTO di un personaggio e del suo mondo: l’esempio più lampante è Solo: A Star Wars Story, in cui si arrivava persino a spiegare perché Han Solo si chiamasse così. Miller invece sceglie saggiamente di mantenere un po’ di mistero, e lo fa cavalcando il mito: il Green Place da cui proviene Furiosa viene mostrato, ma non spiegato. Immortan Joe è già Immortan Joe, la Cittadella e la sua società deviata sono già in piedi quando Furiosa è ancora bambina. Miller si rifà alla mitologia greca e mette in scena archetipi universali, salvo riservarsi di scavare a fondo nelle psicologie dei personaggi che gli stanno più a cuore. Come lo stesso Dementus, una sorta di controparte impazzita di Max Rockatansky, che ha scelto di diventare un villain dopo aver subito una perdita analoga.

Il risultato è un altro road movie in cui la strada, oltre a quella fisica nel mezzo del deserto (stavolta quello australiano), è temporale. Un racconto di formazione in eterno movimento, popolato di personaggi ambigui, pieni di controsensi, e alleanze in continuo mutamento. L’unico obbiettivo è sopravvivere nelle terre desolate, non importa con chi ci si debba alleare o scontrare.

Ma Furiosa è anche un film di vendetta, a differenza di Fury Road, che era una storia di redenzione e giustizia: ci mostra il lato oscuro, rabbioso e vendicativo dell’icona che conosciamo. Non è un caso che Miller recuperi qui i campi lunghi di Interceptor – Il guerriero della strada: nei suoi film non ha mai cercato di celebrare i suoi personaggi, uomini e donne traumatizzati dalla violenza e dalla barbarie, ma ha sempre voluto mostrarceli per quello che erano e rivelarci, con questo sguardo obbiettivo e la giusta distanza, che quei personaggi siamo noi stessi, oggi come un tempo. Per questo, in Fury Road, Immortan Joe muore quasi fuori campo, e per questo a Dementus è riservato un simile destino qui: non si tratta di grandi leader, ma di uomini piccoli e violenti, che meritano solo di essere dimenticati.

Visivamente, George Miller sceglie una via di mezzo tra la concretezza degli stunt e un uso della CGI da blockbuster americano moderno. A tratti può spiazzare, ma Miller si assicura di mantenere salde le fondamenta gettate in Fury Road, usando il meno possibile effetti visivi digitali durante le sequenze d’azione su strada, e affidandosi a essi soltanto quando strettamente necessario, o per ritoccare gli scenari post-apocalittici. D’altro canto Furiosa espande molto la mitologia rispetto al suo predecessore, mostrandoci scenari nuovi (le cittadelle di Gas Town e Bullet Farm) all’interno di un universo consolidato: sarebbe stato impossibile fare tutto a livello pratico.

Un film di più ampio respiro e un blockbuster d’autore intelligente, che sfida lo spettatore anziché venirgli incontro. E che purtroppo sta andando male: costato quasi 170 milioni (escluse le spese per il marketing), finora ne ha incassati 118 nel mondo. Mettiamoci una certa stanchezza del pubblico globale nei confronti delle saghe, mettiamoci la crisi del Covid e degli scioperi di Hollywood, ma resta una delusione vedere che, nonostante i sei Oscar vinti e la street cred micidiale raccolta da Fury Road nell’ultimo decennio, Furiosa non abbia attecchito presso il grande pubblico. È improbabile, visti gli incassi, che George Miller riesca mai a completare questa nuova trilogia con Mad Max: The Wasteland, progetto a lungo sognato. D’altro canto non ce n’è davvero bisogno: questa saga ci ha già dato tanto e ringraziamo che Miller sia riuscito a portare a termine un altro film dopo Fury Road. Dovesse essere l’ultimo film di Mad Max, non sarebbe un brutto finale.

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